Da carnem e da levare, il Carnevale precede quel periodo di mortificazione del corpo e delle esigenze terrene che è la Quaresima. Nata, al solito, come festa pagana della fertilità, esaltazione del promiscuo, della maschera e della follia, è storicamente il momento in cui tutti i valori – e il potere da cui sono legittimati – vengono messi alla berlina: l’incoronazione del rex stultorum, il re dei folli, ne era uno degli aspetti in epoca medioevale così come la glorificazione del cibo, del sesso o dell’evacuazione.
Nel tentativo di allontanare e sbeffeggiare la realtà della morte e, in relazione ad essa, di sottolineare l’inutilità della morale, nelle feste carnevalesche tutto poteva avere spazio. Il corpo, ritenuto allora luogo del peccato e oggi perno della biopolitica, ridiventa sede di ogni aspirazione al benessere e alla felicità. Il Carnevale esiste ancora oggi come grembo dell’impossibile.
Lo dimostrano le tante parate tradizionali che animano l’Italia in questo periodo, molto spesso incentrate su una feroce satira politica e sulla liberazione dalle convenzioni sociali. Scendere per le strade, fare chiasso e mettersi al centro sono la metonimia di una civiltà che stenta a prendere parola nel dibattito sul modo di concepire se stessa e, al contempo, il tempo e lo spazio “autorizzati” a insanire, a diventar pazzi.
Ecco perché il Carnevale rimane una festa celebrata in ogni angolo del mondo: attraversata da molte tensioni differenti, da culture distanti e anche da una buona dose di astrazione dal tutto, sentirsi legittimati a uscire fuori dalla norma è un sollievo.
Lo sapevano molto bene Boccaccio, Ruzzante, Rabelais che, attraverso un realismo comico e grottesco, offrirono una visione del mondo non gerarchica.
È qui che cominciamo a sentirci a casa, no? Più a nostro agio, fuori dalle pressioni.
È qui che prendono corpo le streghe, le figure a metà, i pieni e i vuoti della nostra immaginazione. È qui che troviamo un senso, fuori dai binari e dal binarismo, fuori dalla razionalità pervasiva che cementa le nostre vite in un unico blocco grigio.
Aldilà delle declinazioni territoriali del Carnevale, tutte ugualmente bellissime e affascinanti, tutte contadine – in fin dei conti – e tutte letterarie, noi ritroviamo nella maschera la possibilità di una liberazione e nell’eccesso il significato stesso della vita.
Troppe le regole, troppe le condanne. Troppi argini, troppe esondazioni.
Per una volta varrebbe la pena chiedersi se non debba essere il Carnevale la norma.
E la costrizione l’eccezione.
Di fronte all’ingenuità con cui ci pensiamo eterni e alla hybris con cui abbiamo distrutto il mondo, sembra naturale e sicuramente umano dirci che l’unica ragione possibile continua a vivere nella follia.