Cronache londinesi 3 e 4: artiste alla Modern Tate Gallery, Soho, Covent Garden

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Sunday morning abbiamo appuntamento per un caffé al Barbican ma seguiamo le variazioni del clima e, come il giorno precedente, assecondiamo il sole ballerino che fa capolino tra le nuvole per poi nascondersi nuovamente. Decidiamo quindi di camminare verso Saint Paul, Blackfriars e Millennium bridge per passare sull’altra riva verso la Modern Tate Gallery. Passeggiamo lungo il Tamigi in bassa marea e ci dirigiamo a London Bridge passando davanti al Shakespeare’s Globe.

Appena inizia a piovere entriamo alla Tate approfittando della gratuità dell’ingresso ma, soprattutto, incuriosite dalle nuove interessanti installazioni. All’entrata infatti veniamo attirate da una sorta di cascata di stoffe e corde sospese dal soffitto disposte a cerchio al cui interno si odono suoni e rumori della foresta, musiche e parole. “Brain Forest Quipo” è il nome di questa opera dell’artista Cecilia Vicuña che scrive: “Nelle Ande la gente non scriveva ma tessevano messaggi nelle stoffe e corde intrecciate in diversi modi e colori. Cinquemila anni fa crearono i quipu o khipu (‘nodo’ nella lingua quechua), poemi concreti, un modo per ricordare e coinvolgere corpo e cosmo nello stesso tempo: una metafora tattile e spaziale per l’unione totale. Il quipu e il ceque (sistema di segnali che collegava tutte le comunità andine) furono banditi nel XVI secolo al tempo della conquista spagnola. I quipu vennero bruciati ma non morirono: la loro dimensione simbolica e la visione di interconnessione permane nella cultura andina ancora oggi“.

Leggo che Cecilia è un’artista meticcia indigeno-cilena che dagli anni Sessanta crea poesie, pitture, sculture e film per esplorare ed elaborare una sorta di controcultura rispettosa delle tradizioni indigene. Dopo il colpo di stato contro Allende, divenne membro del gruppo Artists for Democracy attivandosi da Londra, dove era esiliata, per spostarsi poi in Colombia e, dopo la fine del regime militare, tornare in Cile e vivere tra il suo Paese e New York. A Londra è tornata per lavorare con artisti e membri delle comunità latine nella capitale per realizzare questa incredibile opera. Scrive: “The Earth is a brain forest, and the quipu embrace all its interconnections”.

Con i ‘Dead Forest Quipu‘, i due quipu realizzati ed esposti, l’artista denuncia la distruzione delle foreste, l’impatto che questo comporta nel cambiamento climatico, la violenza contro le popolazioni indigene, la gravità della crisi ecologica che stiamo vivendo squilibrando gli ecosistemi. Suggerisce un’interconnessione tra la mente e cuore, tra natura e tecnologia credendo in una nuova era nella quale dobbiamo per prima cosa prendere coscienza della nostra responsabilità in termini di distruzione ed ingiustizia per poi dare vita a una nuova foresta che ripari le ferite della Terra e sulle popolazioni. I quipu sono formati da 27 metri di corde spettrali e pallide come le ossa, intrecciate con materiali naturali e oggetti trovati sulle rive del Tamigi da donne della comunità latinoamericana. Sono sculture multimediali accompagnate dal ‘Sound Quipu’, elementi sonori composti dall’artista e diretta dal compositore colombiano Ricardo Gallo riunendo musiche andine di diverse regioni, silenzi, nuovi brani di Gallo e suoni registrati in natura: otto ore di suono e silenzio alternato simbolizzando il respiro della vita di fronte alla sua perdita in tutto il globo.

Altre notizie sull’artista

Dopo aver ammirato l’opera dell’artista cilena e dopo una pausa salad&coffee nel Terrace bar al 9° piano della ex centrale elettrica (Bankside Power Station) dismessa nel 1983 e adibita a museo di arte contemporanea dal 2000, decido di esplorare le collezioni di vari generi e periodi esposte al terzo e quinto piano, soffermando lo sguardo soprattutto sulle opere di artiste donne. Sono sempre in minoranza le donne pittrici nell’arte contemporanea (come nella storia dell’arte in generale) e mi sembra che questo possa essere un buon criterio nello scegliere il percorso.

Comincio con la sezione Citizen dove le opere sono dichiaratamente indirizzate a traasmettere un messaggio di impegno civile e politico. Spesso il materiale stesso utilizzato in queste opere è in associazione con il dibattito politico. É il caso di Flag (Bandera I, 2009), opera di Teresa Margolles, artista messicana, che testimonia delle migliaia di morti violente al confine del Messico associate al potere dei cartels della droga che controllano le strade verso gli USA. Nella fabbricazione dell’opera, l’artista ha preso tracce di sangue, suolo e altre sostanze dai siti degli omicidi al confine nord.

Altrettanto marcante è l’opera Bosnian Girl di Šejla Kamerić, una delle artiste della generazione della guerra, che mostra il suo volto con lo sguardo diretto alla macchina fotografica e, in sovrimpressione, si legge il graffito lasciato da un ignoto casco blu olandese nella base delle Nazioni Unite a Srebrenica: “Non ha i denti? Ha i baffi? Puzza di merda? É una ragazza bosniaca.” Il graffito fu trovato in un deposito di armi a Srebrenica durante la guerra in Bosnia (1992-95). Una denuncia per tutte le donne vittime di pregiudizi di genere o identità il cui corpo è politicizzato e diventa frontiera e campo di battaglia. L’artista scrive: “We live in a constant war where the female body is used as a territory….This work comes from Bosnia but it tells an universal story of prejudice and bigotry“.

Inizio con la sezione, Studio Practice, che mi ricorda la wolfiana ‘stanza tutta per sé’ in versione art plastique, spazio creativo ed esistenziale indispensabie come fa notare Daniela Ciacci (in arte Dada) nell’intervista “Arte e metalli”:

https://donneconlozaino.org/?s=arte+e+metalli

In queste stanze viene evidenziato il processo creativo come working progress. Qui scopro le pittrici Lenore Tawney (Light in Darkness, 1965; From Its Centre, 1964; That Enter From the End Into the Beginning, 1964) e Agnes Martin la quale, influenzata dal Buddismo Zen e la filosofia cinese Tao, invita alla contemplazione riflettendo sulla perfezione, la bellezza e la spiritualità. Leggo che non è classificabile come ‘minimalista/espressionista astratta’ per la coesistenza di geometria e imperfezione; ha lavorato comunque nel campo quasi esclusivamente maschile dell’arte astratta americana negli anni ’50/’60. Osservo i suoi quadri formati da bande di colore orizzontali divise da delicati tratti di matita che la pittrice spiega come un rigoroso lavoro sulla ricerca della perfezione che però è destinato ad includere l’imperfezione stessa: “Beauty is the mistery of life. It is not just in the eye. It is in the mind. It is our positive response to life.”

Più avanti scopro l’opera di Mira Schendel. Nata in Svizzera, ha lavorato in Brasile: è stata una leader del movimento del Concrete Poetry che focalizzava sull’aspetto grafico delle parole per trasporne il significato. Le sue sono sculture composte da dischi sospesi su cui parole e lettere di varia forma e misura tracciate con la grafite portano ad essere guardate piuttosto che lette. Anche Huguette Caland lavora con le linee espandendo il gesto grafico, soprattutto riferito ai corpi, parti di essi, in una relazione creativa con lo spazio mostrando humour, gioia e indipendenza. Sulla sua partenza dal Libano a Parigi, scrive: “I wanted to have my own identity. In Lebanon, I was the daughter of, wife of, mother of, sister of. It was such a freedom, to wake up all by myself in Paris“.

C’è poi Maria Helena Vieira da Silva, vincitrice del premio della biennale di San Paolo in Brasile nel 1961 e figura chiave dell’espressionismo astratto del dopoguerra a Parigi. Sono impressionata dalla sua opera Corridor (1950) che si riferisce ad uno spazio domestico comune nelle case in Portogallo dove è cresciuta. I colori, le linee e la prospettiva evocano le piastrelle e lo spazio labirintico a partire da uno spazio visibile. Forse perché ripenso al corridoio della mia infanzia o perché trovo che il quadro trasmetta una sorta di bellezza inquietante, mi emoziono e rifletto: ed è proprio quello che cerco nell’arte contemporanea.

Ci sono altre sezioni interessanti: Materials and Objects nella quali vengono esposte le relazioni fra l’arte e gli oggetti della vita quotidiana o Colours dove gli artisti esplorano gli effetti cromatici dei colori in quadri e installazioni. Nella prima ci sono Marisa Merz e Nairy Baghramian che trattano rispettivamente gli intrecci di maglia, lana e nylon per creare forme geometriche mischiando materiali industriali e naturali e ricoprendo piante o altre creature viventi negli ambienti esterni. La seconda scava e incide rielaborando materiale industriale per dare apparenza organica a questi oggetti e creando installazioni molto particolari come Scruff of the Neck. L’artista Haegue Yang espone qui una scultura del 2015 formata da più di 500 veneziane ispirata all’arte concettuale evocando elementi come la privacy e la visibilità e giocando sulle variazioni di luce.

Nell’ultima parte passo nella sezione Modern Times dove la tecnologia è un elemento imprescindibile delle città postmoderne e le artiste esprimono le relazioni tra l’eccitazione, l’ansietà del lavoro, la comunicazione in questo mondo frenetico e mutevole: un dinamismo rielaborato in forme quali la fotografia digitale, i video ma anche sculture e pitture che testimoniano di luoghi come gli areoporti, fotografati da Martha Rosler che, nella sua serie, esplora l’estetica dell’architettura ma anche l’economia e la strategia pubblicitaria usata dalle compagnie: to promise to take the visitor eslewhere, mentally and physically. Mostra anche l’invisibile lavoro, le relazioni di classe e il capitale negli spazi pubblici come questi. Anche la nordamericana Barbara Kruger con il suo lavoro Who owns what?, a partire da assemblamenti di fotografie, pubblicità e illustrazioni di vecchie riviste, pone le domande Who owns the power, the wealth, our bodies, this artwork and when it is reproduced? nel quale il we è un ‘noi’ femminile anche se il suo lavoro ha una dimensione universale.

So che devo terminare la visita alla Tate e affretto il passo ma le stanze che attraverso si rivelano interessanti e mi soffermo sulle sezioni Beyond Pop che esplora le creazioni di immagini della cultura popolare degli anni ’60/’70 in reazione all’astrattismo e con la vocazione di una critica sociale e la Painting and Mass media. Quest’ultima focalizza l’attenzione sul concetto di rappresentazione nel mondo attuale (dove i nuovi media ci immergono massicciamente nei vari tipi di immagine) e sull’influenza di questi nell’arte contemporanea. Christina Quarles con il suo Casually Cruel del 2018, stira le figure umane e un muro da uno schizzo ottenuto in digitale e dipinto con acrilico, a significare la frammentazione e l’isolamento riferendosi alla separazione delle famiglie di migranti ad opera del governo USA sotto la presidenza Trump nella frontiera USA/Messico. L’ultima opera su cui mi soffermo prima di uscire è Valentine (1966) di Evelyne Axell che combina la silhouette femminile idealizzata con un casco spaziale 3D rappresentando la cosmonauta russa Valentina Tereshkova, prima donna nello spazio, sia come eroina femminista che come figura sessualizzata. L’artista vuole mostrare la discriminazione di genere e la lotta per la libertà politica, sociale e sessuale delle donne.

Per concludere la giornata camminiamo fino a Soho dove ci riscaldiamo con un té nel delizioso bar del Picturehouse Cinema e siamo tentati di andare a vedere un film ma Chinatown ci attrae e optiamo per una cena a base di specialità cinesi in un ristorante locale per poi passeggiare nel quartiere dove ci sono ancora le luminarie e le animazioni del recente capodanno.

The next day:

Dopo una homemade English breakfast a base di tea, eggs&bacon, grilled bread butter and orange juice, lasciamo i bagagli e ci incamminiamo verso la nostra meta: io vorrei andare a rivedere il British Museum dirigendomi a piedi finché il clima lo permette. Durante un soggiorno anche corto a Londra, non posso non andare a gustare una Jacket potato al Covent Garden dove scopro che, negli ultimi anni, alcune cose sono cambiate: i chioschi che preparavano le mia amate patate calde da asporto si limitano a preparare hotdog ai turisti e quindi devo entrare nell’adiacente Jubilee market per poter trovare la mia specialità che prendo rigorosamente con lot of cheese. Gustiamo la Potato ascoltando una tenore che si esibisce sulle note di All’alba vincerò per il pubblico seduto al caffé ed a quello di passaggio al mercato. Anche per questo mi piace passare un poco di tempo al Covent: tra artisti di strada, cantanti e musicisti, il luogo risulta sempre animato e sorprendente.

Prima di visitare il Museo decidiamo di cercare un buon caffé e ci fermiamo al Caffé Nero dove sostiamo a riposare un po’ e pianificare i vari spostamenti. Appena uscita mi accorgo di essere stata derubata del portafoglio! Passato il primo momento di sgomento in cui incredula mi dico che, anche se esperta di viaggi e attenta ai pickpocket, c’è sempre una situazione in cui si può essere vittima di un furto come un qualsiasi ingenuo turista alle prime armi. Mi reco quindi alla Police Station per sentirmi consigliare di sporgere denuncia di furto online e ricevere un reference number che, già immagino, mi creerà qualche problema alle autorità francesi ai quali dovrò richiedere la patente rubata, tra le altre cose. Nei giorni successivi riceverò una lunga serie di scuse, via email, da parte della police per non aver potuto dare seguito positivo al mio caso e di inviti a utilizzare eventualmente l’assistenza psicologica in caso che l’accadimento abbia una ragione etnica o di discriminazione di ogni genere …

Senza carta bancaria né patente di guida e soldi (ma con il passaporto per fortuna!) torno a Chelsea a piedi per recuperare i bagagli: ormai si è fatta ora di pensare al ritorno verso Gatwick. Il British salta quindi ma apprezzo la passeggiata attraverso la City con la luce del cielo che a sprazzi illumina il Big Ben e Westmister, poi Regent Park, Hyde Park Corner, Kensigton fino ad arrivare al nostro Flat per recuperare gli zaini e ripartire subito. Arriviamo a Gatwick e imbarchiamo in orario: se all’andata siamo partiti alle 12,30 per arrivare alle 12,35 (magia del fuso orario) questa volta arriviamo la sera tardi a Orly da dove in mezz’ora siamo a casa, felici del fine settimana denso di avventure e scoperte, inclusi gli imprevisti…

P.

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