Tutte noi donne siamo legate le une con le altre da un quasi invisibile fil rouge che ci tiene unite grazie a noi stesse, alle nostre emozioni, alle nostre idee e soprattutto alle nostre, comuni, battaglie.
Mi rendo conto che non tuttə abbiamo gli strumenti o le forze per poter contribuire ad un processo più ampio, chiamato UGUAGLIANZA.
Per nostra fortuna sono state tante le persone che hanno anche solo provato a fare la differenza; c’è chi è riuscitə a portare a termine ciò che si era delineatə, e chi si è dovutə accontentare dei propri ideali.
Tra gli anni 60 e 70 del novecento, partendo dagli USA, il movimento femminista ha ricominciato a farsi sentire dopo anni di “silenzi”. Infatti si inizia a parlare di sessualità, di stupro e di violenza domestica, di diritti riproduttivi, all’aborto e per il controllo della propria fertilià, ma anche di parità di genere sul posto di lavoro.
Però in Italia il movimento femminista iniziò a ricevere un seguito di massa solo nei primi anni settanta: le nostre piazze iniziano a riempirsi, di donne che vogliono davvero diritti, come quello al divorzio. Che vogliono rinnovare lo status di famiglia e l’eliminazione del delitto d’onore.
Proprio in questi anni l’arte italiana dell’uguaglianza e dei diritti inizia a strillare. Infatti iniziamo a trovare riscontri di rivoluzione già tra il 1964 e 65 espressi con un nuovo stile artistico: la poesia visiva, che nasce come tentativo di liberarsi dal linguaggio letterario dell’epoca,ormai logoro e poco efficace, per colmare la distanza fra espressioni artistico-letterarie e il parlato quotidiano. Tra le opere troviamo “VERGINE” oppure “NON COMMETTERE SORPASSI IMPURI“, entrambe frutto del genio di Ketty La Rocca, artista che ha il suo esordio proprio in questi anni. L’impegno di Ketty mirava al raggiungimento della figura della donna come donna e non solo come madre, moglie o figlia. Inoltre tramite queste sue prime opere denuncia la dilagante materializzazione del corpo femminile, in particolare sulla componente politica instaurata su tale corpo, con riferimento alle connotazioni culturali-patriarcali che macchiavano e macchiano il corpo sociale.
Se negli anni 60 l’attenzione delle masse era rivolta principalmente ad opere più “tradizionali” se così si possono definire, nel ‘70 l’interesse viene reindirizzato verso forme espressive legate al corpo e al linguaggio dei gesti attraverso l’adozione di strategie espressive e mezzi diversi come la fotografia, il libro di artista, il video e la performance. L’artista va alla ricerca di un linguaggio che instauri una comunicazione diretta, capace di esprimere la ricostruzione dell’identità, rendendo se stessə e il pubblico indispensabili l’unə all’altrə.
Nel 1971 vede la luce “IN PRINCIPIO ERAT”, un libro costituito da fotografie in bianco e nero di mani che compiono dei gesti quasi rituali, l’artista si sofferma sul linguaggio gestuale delle mani. Infatti lo scopo è quello di riscoprire una modalità espressiva primitiva, capace di sostituire la parola.Dal volume prende vita il videotape performativo “APPENDICE PER UNA SUPPLICA” presentato alla Biennale di Venezia del 1972, in cui l’artista restituisce alle mani da lei ritratte nel libro, la vita e il tempo sottratti dalla fotografia. Il gesto, a differenza della parola, non può essere simulato, il linguaggio del corpo non mente, perché sfugge al nostro controllo e parla anche quando non vogliamo. Il gesto, inoltre, diviene un modo per riflettere sui comportamenti, sui codici e le norme alla base di concezioni e definizioni culturali e sociali.
Oltre a performance e ad opere di poesia visiva Ketty ha scritto anche una sola opera teatrale “LA STORIA CHE HA COMMOSSO IL MONDO”. Il testo non ha una vera e propria trama. Sulla scena si susseguono infatti dei personaggi anonimi, indicati solo con lettere dell’alfabeto (A, B, C). Oltre a questi, sono presenti anche degli Speaker, anch’essi anonimi, che riproducono spot pubblicitari, notiziari televisivi, collegamenti dall’estero, e molti altri riferimenti legati alla società degli anni sessanta e settanta. Pur trattandosi di un vero e proprio collage di voci e battute, il testo sembra mettere in scena la difficoltà della comunicazione nell’epoca dei mass media, facendo chiari riferimenti alla guerra in Vietnam, il ruolo e il corpo della donna che diviene sempre più una merce, e soprattutto il linguaggio della modernità, il vero tema di tutta la sua ricerca.
La parola “you” si riproporrà qualche anno dopo, per la precisione nel 1975, in “LE MIE PAROLE. E TU?”, che fu l’ultima apparizione pubblica di Ketty prima che un tumore alla testa la uccidesse.
Morì di una morte ingiusta e precoce; una fine alla quale non volle rassegnarsi. Ed infatti fu a colpi d’arte che provò a sfidare il male che l’aveva colpita. Prese le radiografie del proprio cranio e le rielaborò, intervenendo su di esse con l’impressione fotografica della propria mano raccolta in un pugno. E ancora una volta – persino qui o soprattutto qui – ricamò l’immagine di “you” (“CRANIOLOGIE”).
Ketty La Rocca fu tra quellə che della sua vita ne ha fatto un’intera lotta: dalle sue idee, alla sua arte fino al tumore che la uccise.
Però secondo me, Ketty non è morta solo a causa della malattia che la colpì, ma per le malattie contro cui ha lottato per una vita, cioè ignoranza, disuguaglianze e la privazione dei diritti non solo quelli delle donne, ma di tuttə.
Ketty, ad oggi, si rivolterebbe nella tomba, se potesse vedere con i suoi occhi come non siamo andati avanti, come viviamo noi donne, in una società, anzi una vita, piena di ostacoli, lotte e problemi. Quindi cerchiamo di rendere orgogliosə di noi questə paladinə, lottiamo e smantelliamo mattoncino per mattoncino i problemi e ricostruiamo un mondo a prova di persona.
“In questa azione che chiamerei coniugazione io sono esempio a me stessa e agli altri di un totale asservimento al linguaggio (…) gli altri che partecipano all’azione coniugano sia un dramma reale che il mio dramma interiore (…) il linguaggio non determina libertà seppure illusorie, ma prolifica contagiosamente, crea vittime che coniugano la loro stessa condizione e la definiscono ‘tu‘”.
Ketty La Torre , “Le mie parole. E tu?”