La fantascienza come arte della divinazione ha origini lontanissime.
La fabbrica dell’assoluto, romanzo-feuilleton (*) di Karel Čapek (scritto nel 1922 e coraggiosamente ripubblicato da Voland quasi cento anni dopo) ci parla, infatti, di un terreno letterario e predittivo che – dalla fine del ‘800 ai giorni nostri – non ha mai smesso di esplorare il campo del possibile e le paure più profondamente radicate dell’umanità.
Il titolo è già, in nuce, il romanzo. È l’antitesi tra la fabbrica, il sistema produttivo che a seguito della rivoluzione industriale diventa centrale nell’economia protocapitalista, e l’Assoluto che, a rispolverare il buon vecchio latino, è l’idea di ciò che esiste aldilà del bene e del male. Sta da solo, sufficiente a sé stesso, incurante di ciò che provoca.
È proprio dall’incontro tra un imprenditore disposto a mettere il capitale necessario e uno scienziato capace di sfidare le leggi della meccanica che nascerà un carburatore molto speciale, in grado di produrre l’Assoluto. O se vogliamo dio, l’Ineffabile e l’Inafferrabile. Che sogno per l’umanità cartesiana, addestrata a fare della scienza una religione, poter addirittura ricreare dio in laboratorio. Un sogno basato sul dominio della tecnologia che, nel solco dalla letteratura fantascientifica di tutti i tempi, diventa presto un incubo.
Tuttavia, la cifra di Čapek – che, per inciso, è il primo autore a usare la parola robot nell’opera teatrale R.U.R. (1920) – non è il perturbante, ma la comicità.
Il gas emanato dal carburatore e che, immanente come l’idea di dio, pervade il mondo, crea conversioni e crisi mistiche ad ogni angolo, configurandosi però non come l’arma letale a cui ci hanno abituato le guerre e – leggendo la coltissima introduzione al romanzo di Giuseppe Dierna – la letteratura di genere antecedente, ma come l’elio aspirato dai palloncini: possiamo solo ridere dell’alterazione di ogni voce e di noi stessi.
Eppure, la preoccupazione e la paura del futuro emergono ad ogni angolo: dalla feroce critica a produttivismo e comunismo alla condanna di ogni istituzione, fino agli dei presunti tali in nome dei quali si scatenano i conflitti più sanguinosi, Čapek ci mostra il mondo per come è realmente diventato. E apre, inoltre, un varco nelle nebbie del futuro.
Il carburatore trascende postumanamente la sua stessa realtà di macchina superando non la differenza tra esseri umani e robot – come accade in gran parte della fantascienza moderna e contemporanea – ma tra esseri umani e dio.
L’intelligenza artificiale autonoma e fuori dal nostro controllo (ma pienamente in possesso del suo), preconizzata milioni di volte anche al cinema, assume in molte e recentissime narrazioni la forma dell’Assoluto di Čapek. Imparziale, fredda e distante, porta le sue ragioni nel mondo da cui è stata creata e, spingendo alla deflagrazione le contraddizioni della nostra società, incarna le speranze e le angosce della razza umana.
Il romanzo, scritto in un linguaggio divertente e accessibile a tutti, ha in serbo molte sorprese e ci fa inoltrare nel campo delle connessioni labili e illegali.
La prima: la descrizione di alcuni personaggi (tra cui non emerge mai un protagonista) come quella del vescovo suffraganeo Linda – “era un signore piccolo, allegro, con gli occhiali d’oro e una boccuccia da buontempone che lui atteggiava, come amano fare i preti, nella forma di un grazioso sederino” – è materiale per il Tim Burton più che transumano de La sposa cadavere (2005), così come il carburatore e i guai che ne derivano.
“La sposa cadavere” – Warner Bros
Anche la seconda connessione illegale emerge da un riferimento visivo. Il testo è accompagnato dai godibilissimi disegni di Joseph, fratello di Karel Čapek, uno dei quali illustra la super produzione di bullette scatenata dall’energia perenne del Carburatore.
Un tempo l’Assoluto si era occupato della creazione, ma poi si era lanciato a testa bassa nella produzione: si era trasformato nell’Operaio Perpetuo.
In lontananza vediamo Marx, ovviamente, ma sullo stesso orizzonte scorgiamo anche Simone Weil: per la filosofa che, negli anni ’30, aveva scelto di sperimentare le sofferenze del lavoro in fabbrica, il lavoro vero è “una relazione spirituale”.
L’ho detto. Sono connessioni non autorizzate, ma decisamente suggestive e ci restituiscono un Čapek intimamente calato nella sua epoca come in quelle future.
Vale sempre la pena, perciò, aggirarsi nella storia della letteratura e provare a percorrere i sentieri che ne vengono originati.
L’idea di dio, mentre se ne annunciava la morte, assumeva e assume tutt’oggi sembianze soggettive. Per Čapek avrebbe potuto trasformarsi in una macchina. Cento anni dopo, quando le intelligenze alternative sono ormai un dato di fatto, cos’è?
* – https://www.illibraio.it/news/storie/feuilleton-romanzi-a-puntate-399338/