Casa di Bambole

Casa di bambola e Annie Ernaux

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Una donna svolge il suo ruolo di moglie e madre di una famiglia borghese in modo apparentemente conforme alle regole sociali e familiari. Fino a quando un episodio mette in crisi questo castello costruito su una bugia e sul gioco di ruoli di Nora, la moglie-bambola, e di Torvald il marito, ignaro dell’inganno perpetrato dalla moglie a suo beneficio ed a quello della famiglia. Dopo il quasi ripudio del marito che ha il potere di togliere alla moglie il diritto ad educare i figli – siamo in Norvegia alla fine dell’Ottocento- sarà proprio Nora a rifiutare di rientrare negli schemi che la vede bambola, ovvero oggetto inanimato alla mercé delle decisioni e della volontà del marito.

Una storia ben nota quella di Ibsen soprattutto per il valore storico (il manoscritto originale è stato inserito dall’Unesco nel Registro della Memoria del mondo nel 2001) che ha segnato per più di cento anni la società occidentale nel dibattito sulle relazioni marito/moglie e soprattutto sulla condizione della donna. Se la critica sul dramma si concentrò allora (e per molto tempo) sulla vicenda narrata ritenuta scandalosa, il valore letterario e scenico dell’opera resta intatto con margini di possibili interessanti proposte teatrali come dimostra la Compagnia Diaghilev e la regia di Giuseppe Marini dello spettacolo in scena fino al 19 febbraio alla Vallisa di Bari. Sono ormai avvezza al tocco speciale di questo regista sensibile e originale su opere che colpiscono il cuore e la mente affrontando temi quali la diversità, la limitazione delle libertà, la violenza del potere sia esso politico o di costume, come negli imperdibili spettacoli: Il caso Braibanti, l’Oreste, La classe, Mar de Plata. Nell’opera Casa di bambola la sfida era quella di “disincagliarla da quei luoghi comuni, pregiudizi culturali e impalcature ideologiche cui è rimasta ancorata sin dal suo esordio”, sottolinea il regista. D’altra parte lo stesso Ibsen era ben cosciente dello scalpore che avrebbe avuto il suo dramma quando affermò: “…Che da molte parti sarebbe stato contestato lo sapevo in anticipo; se il pubblico nordico fosse stato tanto evoluto da non sollevare dissensi sul problema, sarebbe stato superfluo scrivere l’opera.” Che abbia dunque scandalizzato la società benpensante perché opera portatrice di una forza trasgressiva e critica sulla sacralità della famiglia e del ruolo sottomesso della donna, era immaginabile. Fanno riflettere alcune reazioni dell’epoca, tra le quali quella di diverse famiglie scandinave dell’alta società di notificare sui bigliettini d’invito,  «Si prega di non discutere di Casa di bambola». O quando Ibsen dovette, nella versione tedesca, modificare la fine perché l’attrice che impersonificava Nora rifiutò di recitare la parte di una madre che considerava snaturata.

Al giorno d’oggi, nei nostri Paesi occidentali (senza considerare le ultime retrograde ed ingiuste leggi sull’IVG in USA), siamo portati a sorridere di tutto questo eppure quanto c’è di terribilmente attuale in questa opera? Tanto, troppo. Il femminicidio e le violenze coniugali permangono nelle nostre società ‘avanzate’ a testimonianza di una mentalità e di rapporti di forza che il Diritto non riesce a sancire nei fatti. Il vissuto di Nora, con le debite proporzioni, resta spesso quello di molte donne che, anteponendo il bene della famiglia, avviluppano il loro destino in una spirale che le spinge sempre più alla periferia della società, della loro stessa vita come individui. Siamo tutte Nora quando scegliamo il lavoro (o di non lavorare) che ci permette di consacrare più tempo ai lavori domestici o all’educazione dei figli lasciando uno spazio maggiore alla realizzazione delle carriere dei mariti o alla non condivisione equa dei compiti. O quando anteponiamo i desideri e le decisioni degli uomini ai nostri bisogni e volontà considerando ‘naturale’ il loro potere acquisito. O quando accettiamo di riproporre gli stessi stereotipi nell’educazione delle bambine e dei bambini e perpetrare così, attraverso l’educazione, le stesse diseguaglianze. Quando non ci accorgiamo neanche più che il potere decisionale, economico e politico è tuttora, sia in scala macroscopica che micro familiare, sostanzialmente in mano all’altra metà del cielo.

Rileggendo ultimamente i libri di Annie Ernaux, penso al valore evocativo del suo vissuto autobiografico che mostra la trasformazione di sé e, nello stesso tempo, della società tradizionalmente patriarcale grazie all’acquisizione legale dei diritti ed ai grandi cambiamenti quali la diffusione della contraccezione, dell’IVG e delle leggi sulla famiglia (divorzio, delitto d’onore, stupro, ecc). Annie Ernaux ci descrive con sapienza e crudezza questo suo percorso che riflette quello della coscienza femminile capace di trasformare la società stessa: dalla scoperta del sesso -prima subito poi sempre più cosciente delle proprie possibilità- alla rivendicazione del diritto di studiare, lavorare, sviluppare le proprie potenzialità in un’ottica di uguaglianza di opportunità che Annie conquista con fatica, tempo e determinazione. Oltre a quella della scrittrice, insignita del Premio Nobel della letteratura, sono sempre di più le voci che raccontano, in romanzi, saggi e testimonianze, il doloroso e difficile percorso di emancipazione: il cammino è ancora lungo e terribilmente in salita se pensiamo alla condizione delle donne su scala mondiale. Nora, dal 1879 ci indica la strada: rifiutare la condizione di oppressione anche se vissuta in una casa di bambole apparentemente perfetta. Non sa verso quale cammino questo rifiuto la condurrà, ma lei sceglie la libertà.

P.

 

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