Vivere finché si è vivi

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– Non credo di riuscire a sopportare tutto ciò, ho ascoltato una giovane donna dire al suo medico durante la visita di controllo seguita ad una delle sedute di chemio a cui si stava sottoponendo per combattere una malattia ematologica.

– Se vuoi, puoi rivolgerti a Raffaella, la nostra psicologa di reparto- le ha suggerito allora la dottoressa che stava compilando la scheda che settimana dopo settimana prescriveva le terapie da seguire. L’ematologa non le ha dato il tempo per riflettere e qualche minuto dopo una sua telefonata è entrata in stanza una donna esile e sorridente. Si è avvicinata alla paziente, non le ha stretto la mano ma è riuscita con il suo sguardo ad avvolgerla in una stretta rassicurante:

– Sono qui- le ha sussurrato.

Raffaella guida con delicatezza verso una nuova consapevolezza: quella di potersi riconoscere ancora come persona, senza identificarsi completamente nella malattia, ma considerandola un periodo della vita, seppur difficile e doloroso, che può essere affrontato con gli strumenti adeguati, vivendo intensamente il presente. Nei giorni seguenti, l’ho vista muoversi nel reparto per far visita ai suoi pazienti, molti dei quali ha saputo accogliere e sostenere durante il trapianto. Attraversa i corridoi con un’aria rassicurante, indossando il camice bianco, che lascia intravedere sempre un tocco di colore: un maglione caldo o un foulard vivace che aggiunge un tocco di leggerezza alla sua figura. I suoi capelli neri sciolti incorniciano il volto, mentre piccoli orecchini pendenti, spesso del colore verde dei suoi occhi, si muovono ad ogni passo con un leggero tintinnio. Il sorriso di Raffaella è il suo tratto distintivo: spontaneo e caloroso, riesce a far sentire chiunque accolto. Attenta, osserva ogni stanza con discrezione, individuando il momento giusto per avvicinarsi senza disturbare.

Una paziente a me particolarmente cara mi ha riferito che, durante il suo ricovero, quando entrava in stanza, le sue parole erano gentili e piene di calore, ma mai compassionevoli. Scherzava con leggerezza quando si lamentava di qualche contrattempo, trasformandolo in un’amichevole canzonatura. Quando avvertiva particolare bisogno di ascolto, si chinava verso di lei con tutta la sua attenzione e dedizione. Raffaella ha una straordinaria capacità di adattarsi: parla con entusiasmo di serie TV (le ho confessato che amo i “Medical drama”, soprattutto Chicago hospital con lo spettacolare psichiatra dottor Charles) o di musica con i giovani, ma sa anche chiacchierare di giardini, famiglia, o condividere ricordi del passato. Con chi è sopraffatto dalla tristezza, sa quando restare in silenzio e quando rompere il ghiaccio con una parola confortante o una battuta per alleggerire l’atmosfera. Non è raro sentirla ridere, una risata che aiuta a dissolvere per un attimo la pesantezza del dolore. Quando lascia una stanza, si commiata con una frase incoraggiante o un sorriso, quasi a ricordare al paziente che un altro piccolo passo è stato fatto. I suoi gesti sono carichi di significato: prima di salutare, si assicura che ogni persona si sia sentita davvero vista e ascoltata. Ogni suo gesto è come una piccola scintilla di speranza.

Questa psicologa è il cuore pulsante del reparto di ematologia, un promemoria vivente che, anche nelle situazioni più difficili, un sorriso e un po’ di calore umano possono fare la differenza.

Mi ha incuriosito il suo modo di fare, mi sono chiesta cosa l’avesse portata a scegliere una professione così coinvolgente e, per le donne del blog, le ho chiesto di intervistarla.

È arrivata a casa mia con una grande pianta di ciclamini e ho subito accostato quel dono alla capacità dei fiori da lei scelti di resistere alle intemperie, così come lei consiglia di agire. Si è accomodata con naturalezza sul divano e la sua narrazione mi ha fatto dimenticare le elementari norme di galateo: non le ho offerto neanche un caffè, presa dal suo racconto.

Nata a Roma da genitori romani, Raffaella ha studiato nel suo quartiere alla periferia di Roma fino alle medie, non era molto libera e si sentiva stretta in quelle strade dove ancora non c’era la metro che la avrebbe condotta in centro. Frequentava solo gli amici di zona e quelli dei suoi genitori. Nella scelta delle scuole superiori ha deciso di allontanarsi dal quartiere. Ha scelto il liceo Scientifico Cavour, situato-finalmente! -nel cuore della città e, insieme alle nuove strade, si è aperto per lei un mondo di libertà:

Sono stati i miei anni più felici, i compagni di scuola di allora sono ancora i miei amici, sono fedele, se incontro persone che mi ispirano, ci sono per sempre.

Alla fine del liceo voleva iscriversi a medicina, diventare medico, sognava di andare a lavorare all’estero, in Paesi lontani, là dove c’era più bisogno.

Durante il liceo sono stata folgorata dalla medicina, poi mi sono detta: la mente umana è misteriosa, vorrei cercare cose non tanto visibili, perciò ho optato per Psicologia. Quando l’ho detto a casa, mia padre mi ha chiesto in cosa consistesse quella facoltà. È stato difficile il percorso, ho fatto i primi due anni al Magistero, poi alla fabbrica di birra, dove c’è tuttora la facoltà. Amavo alcune materie, altre le trovavo poco interessanti, ero proiettata verso la Psicodinamica, la Fisiologia. La mia tesi era sui” Potenziali evocati visivi e uditivi, poi ho scelto la specializzazione in medicina psicosomatica, un campo che mi ha attratto fin dall’inizio. Io sono stata una ragazzina psicosomatica. Somatizzavo un’ansia non visibile, ero tranquilla e serena, difficilmente mi arrabbiavo ma sotto c’era un’inquietudine che portava a delle somatizzazioni.  

Quando dovevo entrare alla specializzazione, il medico che quel giorno faceva da segretario ebbe un incidente. Entrato in coma, perse una borsa per strada. Quando telefonai per chiedere quando iniziavano le lezioni, non risultavo tra gli iscritti insieme ad altri tre colleghi, le nostre candidature erano state smarrite, c’era un numero chiuso e mi dovettero spostare all’anno dopo. Ho fatto domanda al Forlanini, un colloquio di un’ora, seduta in una sedia dentro lo SPDC, una sorta di reparto psichiatrico chiuso. Era il 1990, infermieri severi facevano da guardiani, i pazienti fumavano dovunque in giro per il reparto, vidi uno di essi fare pipì. Mi sono detta:

– Se resisto a questo colloquio vuol dire che questo sarà il mio lavoro! -Finché sei universitario non lo sai cosa ti aspetta, io fino ad allora avevo visto solo i libri. Ho fatto lì un tirocinio per un anno poi, per altri sei, sono stata volontaria. Ero lì dalle 8:30 alle 13.30, più due pomeriggi. Sono restata ancora, in tutto otto anni, in day hospital con giovani psicotici. In seguito mi sono avvicinata alla psiconcologia. L’ho scoperta perché il mio capo, una donna con una grande mente, mi ha proposto di lavorare con donne col tumore al seno. Ho accettato e cominciato a fare ricerca sugli effetti collaterali della chemioterapia. Studiavamo gli effetti anticipatori di nausea e vomito che le pazienti avvertivano al momento di effettuare la terapia. L’ ipotesi era che, abbassando l’ansia, si sarebbero di conseguenza attenuati tali disturbi. C’era un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo che non faceva nulla, il gruppo sosteneva un colloquio, io somministravo la tecnica per indurre il rilassamento, mettevo degli elettrodi e insegnavo il rilassamento muscolare di Jacobson.

La tecnica di rilassamento muscolare progressivo di Jacobson è un metodo scientifico e pratico che si basa sull’idea che, imparando a rilassare i muscoli, possiamo ridurre il livello generale di tensione e migliorare il benessere psicofisico. Il principio di base è che lo stress emotivo causa tensione muscolare, e questa può essere ridotta consapevolmente per migliorare lo stato emotivo e mentale. Quando il corpo è rilassato, la mente tende a seguirlo, riducendo gli stati di ansia e agitazione. La tecnica consiste nel lavorare sistematicamente su specifici gruppi muscolari, contraendoli per alcuni secondi e poi rilasciandoli, prestando attenzione alle sensazioni durante entrambe le fasi, quella della contrazione muscolare e quella del rilassamento muscolare.

La paziente ascoltava un messaggio sonoro che proveniva dalla tensione dei suoi muscoli attaccati a degli elettrodi. Appena avvertiva la tensione metteva in atto le tecniche che avevo insegnato finché  non scompariva il segnale. Questo addestramento la portava a mantenere il suo corpo in stato di rilassamento. In letteratura lo stato di rilassamento muscolare è inversamente proporzionale all’ansia. Quando hai terapia in chemio, devi tener presente quanto l’ansia possa interferire. Ciò serve a migliorare la qualità di vita. Lo studio è durato per otto anni, durante i quali ho continuato a perfezionarmi in psiconcologia.

 Questa particolare branca della psicologia e della medicina si occupa degli aspetti psicologici, sociali e comportamentali legati alla prevenzione, diagnosi, trattamento e sopravvivenza al cancro. Si focalizza sul benessere emotivo e psicologico dei pazienti oncologici e dei loro familiari. Aiuta i pazienti a gestire ansia, depressione, paura della morte, promuovendo il senso di speranza, resilienza e adattamento. Sostiene le persone che si prendono cura del paziente, aiutandole a gestire il carico emotivo e pratico per affrontare la comunicazione e le dinamiche familiari. Aiuta i pazienti a far fronte ai cambiamenti fisici causati dalla malattia o dai trattamenti. Supporta inoltre nel prendere decisioni informate riguardo alle opzioni di trattamento, considerando le implicazioni emotive e pratiche. In collaborazione con i medici, sostiene i pazienti nella gestione del dolore fisico e della fatica cronica attraverso tecniche psicologiche, come il rilassamento o la mindfulness.

-La psiconcologia – afferma Raffaella, gioca un ruolo cruciale nel rendere il trattamento oncologico più umano e completo, considerando non solo il corpo ma anche la mente e il cuore del paziente e dei suoi cari.

Dopo il Forlanini, Raffaella ha cominciato a lavorare privatamente con pazienti psicotici.

Il primo paziente è stato difficile, avevo uno studio a via dei Serpenti, quando lavoravo ero sola, non conoscevo i pazienti, avevo messo, come si usava prima dell’avvento di internet, un annuncio su “Trovaroma”, poteva arrivare chiunque, ma non avevo paura. Ho avuto sempre pazienti molto rispettosi. Io prendo il mio lavoro come uno strumento che serve all’altro per stare meglio, nessuno ha mai provato a infrangere la barriera. Io dò il mio telefono a tutti e solo due volte in 30 anni ho avuto telefonate di notte ma erano chiamate per validi motivi. Quando è nata mia figlia ho un po’ rallentato i miei ritmi lavorando part time, andavo a studio due volte a settimana.

Dopo ho seguito un master di psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza. Volevo saperne di più. In seguito sono approdata a Tor Vergata. Ho iniziato come semplice volontaria, andavo il pomeriggio ad aiutare la professoressa Cantonetti a sistemare le cartelle durante il passaggio dal sant’Eugenio al Policlinico. Dopo poco mi è stato chiesto di fondare un’associazione di volontariato. Ci abbiamo messo alcuni anni per costituirla, ma nel 2005 abbiamo iniziato. All’inizio aiutavamo selezionando le persone che facevano domanda, formandole e facendo da tutor in base alle richieste del PTV. Pian piano abbiamo cominciato ad essere sempre più numerosi. Adesso siamo circa 70. L’Associazione Volontari per il Policlinico Tor Vergata ha come missione principale quella di offrire supporto e assistenza ai pazienti, ai visitatori e al personale sanitario dell’ospedale, contribuendo a creare un ambiente più umano e solidale. La professoressa Cantonetti poi mi ha voluto come psiconcologa nel reparto e ho iniziato, dapprima come volontaria, poi come consulente esterna. Fino ad allora, se c’era qualche paziente difficile chiamavano semplicemente la consulenza psichiatrica che forniva il farmaco. Ciò va bene per ovviare a una crisi, ma per un paziente che dà segni di difficoltà psicologica si ha bisogno di una figura fissa, ciò soprattutto in reparti dove le degenze sono lunghe o per patologie particolari. Una donna giovane che deve affrontare la rimozione delle ovaie ha bisogno di un supporto. Le cose sono migliorate ma molto lentamente.

Sono soddisfatta anche se mi sarebbe piaciuto stare al cento per cento in ospedale, prediligo il contatto ospedaliero, il luogo di cura deputato, nel mio piccolo so che devo curare qualcosa e l’ospedale mi sembra il luogo per elezione. Ho sempre lavorato con il passaparola, ho cambiato 4 studi, a me piace stare in un posto dove sia legittimata la mia figura. Non amo chiedere soldi,  il mio lavoro non è per arricchirmi. Quando lavoravo a via dei Serpenti, il mio collega diceva che dovevamo creare e mantenere il bisogno nel paziente. Io non ero d’accordo, la mia soddisfazione più grande era ed è vedere le persone andare via con le proprie gambe, finalmente libere dal bisogno. Io sono cresciuta, non so quando ho fatto il passaggio dall’esser persona a qualcuno in grado di aiutare. Quello che consiglio sempre ai miei pazienti è “rimanere nel qui e ora”, soprattutto nella fase attiva della malattia, solo dopo le cure si può pensare al domani. Ho scelto sempre la cosa non conveniente ma quella col cuore, con l’emozione. Dal mio lavoro dò tanto ma prendo tanto.

Chiedo a Raffaella se il dolore che respira nei reparti lo porta con sé quando esce dai colloqui:+

Ho la capacità di dividere il mio mondo dal loro, il pensiero ce l’ho sempre ma quando esco cerco di separare ciò che è mio da ciò che non è mio. Mi piace stare con gli amici, mi piace la musica, amo il rock, il jazz, la musica operistica, da ragazza suonavo la chitarra classica anche se avrei voluto suonare la batteria. Qualche anno fa un paziente mi ha parlato dei suoi sogni nel cassetto, ho riflettuto e sono tornata al mio sogno di ragazza, ho individuato una scuola e dalla settimana successiva ho iniziato a frequentare un corso di batteria. Gioco a tennis, frequento un circolo, amo leggere anche se in inverno lo faccio poco perché impegnata con il lavoro. I miei libri sono prevalentemente di studio. Amo la saggistica, la narrativa seria. Le prime dieci pagine sono le più difficili, mi danno il segnale di come sarà il libro. Prima ero un’appassionata di gialli, ho iniziato con Agata Christie, poi un po’ di horror con Stephen King, Kay Scarpetta… Amo il cinema d’autore, in particolare quello francese, anche quello zeppo di dialoghi.

Mi piacerebbe essere una viaggiatrice reale, sono pragmatica, ma sono una sognatrice. Mi piacerebbe esplorare di più. Ho fatto dei viaggi cercando di ottimizzare il mio poco tempo. Qualche giorno prima di partire mi prende l’ansia da distacco, sono una che controlla se stessa e l’ambiente, perciò soffro di ansia al momento del distacco, poi, una volta partita, mi passa tutto. Mi piace andare in mete poco turistiche, capire il luogo, le persone. Prediligo i luoghi al di fuori dell’Europa, vorrei andare in Cile e in Perù. Ricordo con piacere un viaggio in Argentina, un giro per la Patagonia, Iguazu, in Uruguay a Punta del este, sul Perito Moreno con i ramponi, Ushuaya, la penisola di Valdez. Poi New York, la Germania… Mi piacerebbe andare in un posto di mare, mio marito vorrebbe andare alle Maldive ma sento di avere altri posti più interessanti da visitare, prima.

 Nel mio zaino metterei il minimo indispensabile: per prima cosa la curiosità, poi l’allegria, l’ottimismo, il rispetto del posto che visiti, una macchina fotografica. Vivrei su una barca, l’acqua è per antonomasia la madre. Con un gruppo di amici abbiamo concordato di festeggiare i rispettivi compleanni partendo una settimana all’anno da qualche parte. Io ho proposto un giro in barca lungo i canali della Loira, poi siamo andati in Olanda per i canali dei paesini olandesi, siamo entrati con il nostro barcone di 8 metri, l’anno prossimo non so dove andremo…Dormiamo per 8 giorni in barca, c’è accordo tra di noi, non ho mai perso tempo con le mie amicizie, ho saputo scegliere bene: il gruppo del tennis, i compagni di scuola, il gruppo delle mamme ex ginnastica artistica di mia figlia.

Raffaella conclude così la sua chiacchierata:

Io sono il frutto delle esperienze di vita e dell’incontro con tutti i miei pazienti, tutti a loro modo mi hanno dato qualcosa. “Viviamo finché siamo vivi”, è una frase ereditata da una paziente, che mi disse: -Mi aiuti a vivere finché sono in vita- ed è ciò che faccio tutti i giorni.

Raffaella Gambardella

Raffaella, appassionata narratrice, è una blogger che ha saputo rasformare le sue più grandi passioni – il cinema, i viaggi e la lettura – in una piattaforma vibrante e ispiratrice. Sin da piccola, è stata affascinata dalle storie: quelle raccontate sul grande schermo, lette nelle pagine di un libro o incontrate lungo il cammino nei suoi viaggi. Continua a intrecciare parole di donne in un cammino che non smette mai di arricchirla.

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8 marzo