La Cina è vicina

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Riceviamo questo interessante racconto di viaggio dalla nostra amica donnaconlozaino Paola attualmente in Nuova Zelanda:

La Cina è vicina, recitava un film di Marco Bellocchio datato 1967, proprio l’anno della mia nascita. Ebbene sì, alla veneranda età di 57 anni sono riuscita per la prima volta nella mia vita ad andare in Asia.

Però la prima grande scelta l’ho fatta due anni fa, quando ho deciso che avrei lasciato Madrid e avrei intrapreso la carriera docente all’estero, prima a Ginevra per un anno e poi, dallo scorso settembre a Wellington, in Nuova Zelanda.

In Nuova Zelanda no se me había perdido nada, come dicono gli spagnoli quando non gli interessa visitare un posto, ma poco a poco sto scoprendo le bellezze recondite e gli affascinanti paesaggi mozzafiato di queste terre che stanno esattamente agli antipodi di dove stavo prima. Una mia amica ha addirittura scoperto che Wellington sta esattamente dall’altra parte del mondo rispetto al paesino della Castiglia di dove era oriunda sua madre. Una connessione in più con questa terra, che non pensavo di avere…

Ma veniamo all’Asia e alla Cina. Lo scorso Natale ho approfittato del fatto che la Corea e la Cina stanno esattamente a metà strada tra Madrid e Wellington e ho incontrato la famiglia a Seul. Da lì siamo andati assieme a Pechino e poi, una volta finite le feste, ognuno è ritornato dove stava di stanza.

Seul è una città enorme (ma non sapevo ancora che Pechino lo è due volte tanto), compatta, con quei grattacieli infiniti che svettano come spade verso il cielo plumbeo. Purtroppo ho lasciato l’estate australe per bardarmi fino ai denti nelle fredde latitudini coreane e cinesi, dove a volte si arrivava ai venti gradi sotto zero, soprattutto in cima alla torre della televisione di Pechino, dove si battevano i denti a ritmo di cha cha cha.

Siamo atterrati a Seul in pieno periodo natalizio e abbiamo visitato strade, mercati, centri commerciali, tutti addobbati con luci, alberi di natale, strenne e cotillon. La prima impressione ci ha ricordato i grandi complessi commerciali europei, con gente infagottata che comprava, spendeva e scialava a più non posso. In poche parole, mi è sembrata una società molto occidentalizzata, dove ci sono più Starbucks per metro quadro che a Milano o a Madrid. 

Le reti sociali, in particolare Tik Tok, la facevano da padrone e quando le mie figlie mi chiedevano di andare in un certo posto o localino che tutti raccomandavano sull’applicazione cinese, inevitabilmente c’era una coda stratosferica, perché tutti, cittadini del posto o stranieri, volevano assaggiare quel pane al vapore o quel croissant al rosmarino che tanti avevano lodato virtualmente.

Un’altra cosa curiosa che ricordo del viaggio è che gli edifici in prima fila nelle strade principali erano completamente tappezzati da cartelli e scritte pubblicitarie, tanto che i pannelli coprivano anche le finestre. Allorché chiesi alla mia amica coreana perché coprivano le finestre con le scritte pubblicitarie, mi disse che preferivano i soldi alla luce solare.

Questa importanza, quasi una venerazione del vil denaro, l’ho notata anche in Cina, dove davanti ad ogni casa che si rispetti c’è un leone di pietra. Toccargli il didietro porta sfortuna, perché vuol dire che i soldi se ne vanno, ma se gli tocchi la mascella, allora sì che i soldi entrano in tasca…

Lì tutto è merce, tutto è suscettibile di essere comprato e venduto. Bancarelle in ogni dove, mercanzia esposta sui marciapiedi, negozi ambulanti, centri commerciali strapieni di prodotti di k-beauty e cosmetica, abbigliamento, cibo, telefonia. Una sovrastimolazione sensoriale acuta che continuava a ronzarti in testa perfino quando ti coricavi stravolta dalla lunga giornata passata a visitare palazzi dell’epoca di Joseon, templi buddisti e fortezze secolari (Suwon, a sud di Seul).

Da Seul a Pechino ci vogliono solo due ore di volo, sono molto vicine geograficamente, ma lontane se ci riferiamo a società, valori e democrazia.

A proposito, proprio in quei giorni la Corea era in subbuglio perché agli inizi di dicembre l’ex primo ministro aveva avuto l’ardire di dichiarare la legge marziale. Per caso, un sabato mattina siamo incappati in una manifestazione pacifica che chiedeva le sue dimissioni, come ogni sabato mattina da quel fatidico 3 dicembre. Era una manifestazione festiva, con cittadini indignati che portavano cartelli e striscioni e altri che ballavano al suono della musica di una band che si esibiva sul palcoscenico mentre lanciava messaggi di protesta.

In un tiro di schioppo eravamo quindi a Pechino. Dall’aeroporto all’hotel ci abbiamo messo tanto quanto è durato il volo. Era il 31 dicembre, di venerdì pomeriggio e le strade parevano collassate.

La prima impressione è stata positiva, niente alberi di Natale, niente Starbucks (a dir la verità ce n’era uno dentro un hotel 4 stelle dove andavamo regolarmente a fare colazione, nonostante avessero solo un croissant, un muffin e un sandwich salato). Moltissime telecamere nella piazza Tienammen, dove per vedere il mausoleo di Mao abbiamo dovuto passare 4 controlli dopo aver lasciato le borse in un deposito bagagli e aver circumnavigato la piazza attraverso un percorso transennato dove confluivano mansuetamente tutti i visitatori senza eccezioni.

Non eravamo riusciti a prenotare l’ingresso al mausoleo, solo io ce l’avevo fatta, lasciando gli altri tre senza biglietto, ma la persona che stava al controllo dell’ingresso è stata molto collaborativa e ha prenotato lei stessa gli altri tre ingressi con il suo account personale di We chat. Effettivamente, sia We chat che Alipay, sono due applicazioni che ti permettono non solo di pagare scannerizzando un QR, ma anche di prendere la metropolitana, di chiamare un taxi, prenotare i biglietti per un evento, e di chattare col tuo migliore amico. Insomma, puoi fare di tutto e di più, solo che probabilmente sei controllato e quindi può darsi che qualcuno sappia tutti i tuoi movimenti e persino i tuoi gusti teatrali e cinematografici.

La Cina si sta digitalizzando a passi giganteschi, ormai fermare un taxi per strada alzando la mano è diventata un’impresa impossibile: il tassista scarica i clienti e riparte per prendere su i prossimi che lo hanno prenotato via app.

Invece, una domenica siamo finiti in un tempio con migliaia di credenti in preghiera, che accendevano tre stecchini di incenso e li consacravano al budda gigantesco custodito nell’edificio principale e venerato dai presenti. Una scena degna di un documentario sulla religiosità popolare.

Il freddo intenso non ci ha impedito di goderci la camminata sulla grande muraglia e la corrispondente discesa sullo scivolo gigante. Purtroppo abbiamo prenotato una visita guidata con l’agenzia con cui lavorava l’hotel e prima della Grande Muraglia ci hanno scarrozzato e accompagnato in una gioielleria specializzata in oggetti di giada, un negozio di tè e perfino un centro medico tradizionale in cui un dottore ci ha guardato la lingua e le mani e ci ha prescritto pillole a base di erbe che sono risultate più care dell’Ozempick. A proposito, quelle pillole chissà dove sono finite: non le ho potute portare in Nuova Zelanda dove alla dogana non fanno passare neanche un filo d’erba.

Insomma, l’avventura asiatica, durata 3 settimane, è certamente valsa la pena. L’Asia sembra vicina, come sosteneva Bellocchio, ma in realtà non lo è tanto. I contrasti eccessivi permeano l’universo e l’immaginario che ci siamo fatti degli asiatici: i tassisti con la Tesla accanto ai vecchietti che trasportano montagne di polistirolo legate alla buona su una vecchia bicicletta scrostata. Gli svettanti grattacieli di Sanlitum e gli squallidi hutong del centro, i quartieri artistici alternativi e i negozietti dove cucinano zampe di gallina e intestini, i centri commerciali con le boutique (quasi tutti vuoti a tutte le ore e con i commessi come avvoltoi che cercavano di accaparrarsi l’affare) e i mercati rionali con le bancarelle improvvisate. Un universo parallelo a quello coreano, dove tutto brilla e scintilla, anche se non dappertutto, evidentemente.

Queste sono le mie impressioni, le impressioni di chi in Asia ci è capitata tardi, ma che ci vorrebbe ritornare senz’altro.

Paola Iasci

Education Attaché, Ambasciata di Spagna a Wellington

Patrizia D'Antonio

Grazie all’incontro con Alberto Manzi, a cui ha dedicato la propria tesi di dottorato e di cui è stata collega, ha intrapreso la carriera di insegnante, occupandosi di sperimentazione didattica delle lingue in Italia e all’estero, prima di trasferirsi definitivamente a Parigi. Ha pubblicato, di recente, Donne con lo zaino. Vite in cammino (Elliot, 2023), basato sul blog omonimo.

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