Gorée e la memoria/Gorée et la mémoire

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Les familles étaient separées: les hommes enfermés ici et les femmes de l’autre côté

In questa grotta venivano rinchiusi fino a trentacinque bambini tra i dieci e i dodici anni; la metà morivano di fame e di malattie durante il soggiorno…

Aquí se encerraba a los rebeldes y se les dejaba morir de hambre lentamente como ejemplo para otros esclavos.

Here is the space where there were women with babies; now it is a reflection space where you can take a quiet moment to reflect on the history of the ‘Maison des Esclaves’ and the trade in human beings…

La prima tappa della mia visita dell’isola di Gorée, ed obiettivo principale, è la Maison des esclaves. Sono emozionata entrando in questo luogo che mi evoca, oltre alle tante letture, il nome della casa editrice dell’amico Riccardo Bassani, progetto editoriale che avevo abbracciato con entusiasmo tanto da tradurre Rosalie l’Infâme, romanzo di Evelyne Trouillot ispirato a storie vere di schiavismo ad Haïti per la collezione “Diritti&rovesci”.

Lo spazio delle celle, tutte al piano terra, è ridotto. I visitatori affluiscono con le loro guide, ufficiali o ingaggiate sul momento. Provo da subito uno sgomento profondo captando il vissuto di tanti uomini, donne e bambini tra queste mura. Devo farmi spazio però tra i vari gruppi che, vociando, seguono le spiegazioni nelle varie lingue. L’orecchio registra brandelli di informazioni in francese, inglese e spagnolo mentre passo dalla lunga e stretta cella dove venivano imprigionati i bambini a quella delle donne e, dall’altro lato, quella degli uomini. Le guide spiegano, nelle varie lingue, che i due pertugi separati verso il cortile interno erano adibiti alla lenta morte di schiavi recalcitranti i cui lamenti dovevano servire da monito agli altri. Passo e ripasso nello spazio dedicato alla meditazione di questo luogo di memoria cercando un momento di possibile concentrazione tra le voci delle guide che si sovrappongono e i commenti rumorosi di un folto gruppo di visitatori. Riesco a seguire il rito indicato in questo spazio-cella: spargere dell’acqua dalla fonte posta al centro in memoria dei milioni di schiavi che affrontarono la traversata senza ritorno o che morirono prima. L’apertura sul mare mi dà un senso di libertà, l’accesso ad un orizzonte sconfinato. È forte il contrasto con questa percezione e la nozione di mare come distacco, dolore, morte per le centinaia di schiavi caricati su ciascuna nave che per secoli li ha trasportati nel Nuovo Mondo come merce di scambio del commercio negriero.

Di fronte allo scatto fotografico di un gruppo di turisti che saluta l’obiettivo dalla scala che porta al piano superiore, provo un’impressione simile a quella avuta nell’ultima mia visita a Dachau già diversi anni fa: mi infastidiscono gli schiamazzi e la leggerezza con cui alcuni visitatori passano per questi luoghi. D’altra parte le guide colgono l’occasione per guadagnare qualche franco ed assecondano i turisti con i loro racconti e gli improbabili scatti da foto ricordo. In verità non è accertato che la Maison des esclaves sia stata una vera e propria esclaverie come raccontano le guide, ma, in fondo, poco importa di quale edificio si tratti. Certo è che l’isola di Gorée, sito patrimonio dell’Unesco dal 1978, è stato uno degli approdi più importanti dove si praticava il commercio degli schiavi dell’Africa occidentale ed è diventato il simbolo della memoria di una lunga e terribile pagina nella storia dell’umanità. Oltre alle foto di personaggi famosi venuti a testimoniare l’importanza del luogo, tra cui Barak Obama, mi colpisce una targa commemorativa del 2011 a cura di diverse fondazioni, enti e associazioni internazionali tra le quali l’ARCI, la CGIL, Legambiente e altre in cui viene riportato l’art. 1 della dichiarazione universale dei diritti umani: Tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droit. Ils sont doués de raison et de conscience et doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité”. Belle parole, tuttora disattese, e non solo in Africa.

Tutt’altra atmosfera regna nel Musée historique du Sénégal, all’interno del Forte d’Estrées, dove sono contenuti preziosi ed interessanti documenti. Nemmeno un visitatore oggi si avventura in queste undici sale che, con la loro collezione di oggetti, reperti, fotografie e documenti, ripercorrono la storia del territorio detto Senegambia. Dalla preistoria ad oggi vengono anche documentati i quattro secoli della tratta degli schiavi fino all’abolizione dello schiavismo e del successivo mercato clandestino che durò ancora per molti decenni. I vari pannelli esplicativi riportano la storia dell’esplorazione, dominazione e/o colonizzazione da parte di portoghesi, olandesi, inglesi e francesi ma anche delle ‘traites saharienne et orientale”. Viene spiegato che per più di un millennio queste ultime hanno messo in relazione il mondo arabo-berbero con le popolazioni africane per i commerci di prodotti di artigianato o altre risorse legate al mercato degli schiavi. Questo era basato sulle razzie o ‘doni’ dei capi africani e ha contribuito a incrementare i conflitti interni. La ‘tratta sahariana e orientale’ ha avuto delle conseguenze enormi nel destino dei continenti afro-asiatico. Sul piano demografico non si saprà mai esattamente il numero di schiavi deportati nei paesi arabi in dieci secoli; alcuni documenti parlano di razzie che trasportavano centinaia di schiavi per carovana. Viene citato, ad esempio, il pellegrinaggio alla Mecca del re maliano Kankan Moussa nel 1325 che avrebbe mobilizzato 12000 schiavi (di cui 1000 ragazze) destinati a finanziare il viaggio. O ancora si ricordano le migliaia di africani deportati in Mesopotamia per lavorare le piantagioni di canna da zucchero o per l’allevamento o per compiti militari: nella corte di Bagdad c’erano 400 soldati africani. Sul piano economico i paesi arabi hanno tratto enormi benefici dal commercio degli schiavi nell’area del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano creando una grande prosperità nelle corti reali arabe. I Neri servivano come reddito fiscale pagato dagli africani ai capi di guerra arabi. Quando Okba ben Nafi, per esempio, conquistò la Nubia, la tribù della regione doveva pagare 360 schiavi come tributo all’anno. Sul piano politico la tratta ha anche contribuito alla frammentazione politica degli stati o imperi africani a causa delle interminabili guerre dovute al controllo strategico dei territori della tratta. Secondo le stime dello studioso Ralph Austen 17 milioni sarebbe il numero totale degli schiavi deportati tra il 650 e il 1920 senza considerare le perdite dovute alle morti per fame, per le malattie, i suicidi, i conflitti. Il pannello che documenta questa lunga storia conclude comunque: “Con la conversione all’Islam, gli schiavi potevano guadagnare nella società islamica una certa dignità, motivo per cui la loro condizione, nonostante la lunga durata di questo schiavismo, non ha conosciuto il rigore e la durezza di quella delle società capitaliste occidentali che ne ha fatto il fondamento stesso della ricchezza”.

Più avanti viene illustrata la storia della ‘traite transatlantique’ che cominciò nel 1441 quando i portoghesi presero degli schiavi africani per venderli nel porto di Lagos, in seguito in Spagna e nelle isole della costa africana. Dopo la scoperta dell’America e nel primo decennio del XVI secolo, la tratta diventa transatlantica e fu monopolio dei portoghesi fino al secolo successivo quando anche gli olandesi, gli inglesi e i francesi si lanciarono nel commercio provocando un incremento considerevole del commercio negriero. Nel XVIII secolo inglesi, francesi e portoghesi furono i maggiori negrieri. Dopo l’abolizione del commercio degli schiavi in Inghilterra, nel 1807, la tratta divenne clandestina ma proseguì almeno fino al 1865. L’apogeo fu nel corso del XVIII e XIX secolo con la partecipazione, in misura minore, di danesi, svedesi, spagnoli, mercanti di Ostenda, di Curlandia e Brandeburgo. Lo studioso Curtin, nel 1969, ha stimato che nove milioni e mezzo di schiavi sbarcarono nel Nuovo Mondo. Altri ricercatori ritengono il calcolo notevolmente sottostimato perché non tiene conto delle cifre della tratta clandestina, né dei morti durante il percorso dall’interno alla costa o quelle prima dell’imbarco o durante la traversata. Al di là del calcolo numerico esatto, risulta evidente la dimensione tragica di questo commercio umano.

Un altro pannello spiega i vari metodi di cattura degli schiavisti con esempi: il metodo cosiddetto ‘violento’ che poteva essere basato sull’imbroglio, come nel caso del re del Gambia e la sua corte invitati a salire, nel 1475, su una nave negriera spagnola e poi catturati e venduti in Andalusia. Il metodo praticato occasionalmente da portoghesi, inglesi e francesi era di scendere a terra per razziare gli abitanti e ridurli in schiavitù. Infine, soprattutto nel XVI e XVII secolo si utilizzavano intermediari africani, come ad esempio quando l’inglese C. O’Hara si alleò ai Mori per razziare i Walo alla foce del fiume Senegal, nel 1775.

Tra i metodi cosiddetti ‘pacifici’ c’è quello in cui si ricorreva ad intermediari bianchi o meticci in loco che procuravano degli schiavi tramite le autorità locali, come nella Petite Côte e a Saint-Louis. Il secondo metodo prevedeva l’utilizzo di intermediari africani come nel caso del regno di Angola con 15000 schiavi trattati all’anno intorno al 1760 o, come in Saloum il cui re aveva aperto la tratta con i negrieri europei. Il terzo metodo prevedeva la concentrazione degli schiavi nei forti chiamati les esclaveries, nelle coste dell’Africa occidentale e che venivano comprati dal governatore che trattava con gli intermediari africani.

Gli schiavi venivano visitati dal chirurgo per valutarne il prezzo per poi essere marchiati a fuoco. Nel XV e XVI secolo la mercanzia offerta dai portoghesi per lo scambio era generalmente un unico articolo, come i cavalli. Nei due secoli successivi gli europei proponevano un assortimento di articoli diversi come tessuti, armi, acquavite, coltelli, sciabole, barre di ferro. In Senegambia, nel XVIII  secolo, il valore degli schiavi era valutato sul prezzo di una barra di ferro. In questo territorio fu il secolo nel quale la tratta è stata più intensa: tra il 1711 e il 1810 circa 180000 schiavi furono trasportati dal Senegambia in America. I porti di imbarco erano Gorée, Saint Louis e James Fort seguendo i fiumi Senegal e il Gambia. L’asse commerciale della tratta, dai territori interni fino alla costa via fiume, era un percorso che ha contribuito a rendere insicure molte regioni e squilibrare la distribuzione delle popolazioni tra quelle che contribuivano alle razzie o che si opponevano.

Nel pannello dedicato a La vie outre-mer viene spiegato cosa avveniva allo sbarco. Dall’attuale territorio senegalese gli schiavi furono portati in Portogallo, Spagna, Brasile, Stati Uniti, ma la maggioranza venivano deportati nelle Antille francesi. A volte si compravano direttamente a bordo dal capitano o a terra dal consignatario dell’armatore. Si informavano gli acquirenti con avvisi della vendita: un piccolo gruppo veniva acquistato dai Petits Blancs delle città ma la maggior parte partiva per le piantagioni di canne da zucchero, caffè e indigo. Un terzo moriva durante il primo anno per le condizioni di lavoro e l’inadeguatezza all’ambiente. Ogni piantagione poteva avere decine o centinaia di schiavi a seconda della grandezza; venivano suddivisi in domestici, operai e braccianti: questi ultimi erano la categoria che subiva le condizioni di lavoro più difficili. L’organizzazione della piantagione dipendeva dal colono/proprietario che spesso la affidava al gestore aiutato dagli economi e poi c’erano i ‘capi degli schiavi’. Se inizialmente questi ultimi erano bianchi, in seguito erano neri o meticci che mantenevano l’ordine con la frusta in mano per punire i reati più leggeri nella piantagione stessa mentre per quelli più gravi era il colono o il gestore a impartire la punizione. La giornata di lavoro cominciava prima dell’alba con la preghiera e la colazione, poi continuava fino a notte con un’ora di pausa per il pasto. Nel 1685 fu proclamato le Code Noir che fissava le razioni alimentari settimanali, lasciando un giorno a settimana libero per lavorare il proprio orto e potersi approvvigionare autonomamente con il cibo. I coloni dovevano poi fornire due abiti di tela di 7,5 m di tessuto ma non era previsto fornire l’alloggio. Il codice intendeva migliorare le condizioni di trattamento degli schiavi per esempio includeva la norma di non separare i coniugi nella vendita o indicava il numero massimo e la disposizione ottimale degli schiavi nella stiva della nave durante la traversata (si veda foto) ma era spesso disatteso. La mortalità era talmente elevata che gli schiavi nelle piantagioni venivano semplicemente sostituiti con altri acquisti; il tasso di natalità era bassissimo e i bambini morivano piccoli. L’affrancazione era una ricompensa soprattutto data ai meticci nati da una relazione con un bianco tanto che finirono per diventare una classe sociale. Le marronage, ovvero la fuga, era punita severamente dal regolamento con il taglio delle orecchie e il marchio di un fiore di giglio al primo tentaivo. Al secondo veniva sezionato il ginocchio e marchiato un secondo fiore; infine era prevista la pena di morte al terzo tentativo. Chi fuggiva cercava di raggiungere i fuggitivi organizzati mentre le piccole fughe erano punite con la frusta, le collier (catena al collo con punte le nabot (pesante anello ai piedi), la chaine (alle caviglie) , la barre (gambe bloccate dal giogo). Nel XVII secolo, quando gli schiavi erano ancora in numero limitato nelle Antille francesi si reclutavano dei bianchi, gli ‘engagès de jardin’ che lavoravano con contratto triennale nelle piantagioni insieme agli schiavi neri condividendo le stesse condizioni di lavoro.

In un’altra bacheca infine è conservato il “Décret de la Convention Nationale qui abolit l’esclavage des Négres dans les Colonies” del 1794, la cui applicazione fu rinviata da Napoleone, e le date successive: -1814 quando la Francia di impegna a abolire la tratta; -1815 quando si decreta al Congresso di Vienna l’abolizione della tratta; -1831 Gorée diventa scalo di una flotta di quattro navi incaricate di scovare le imbarcazioni dei negrieri; -1848 quando la Francia abolisce la schiavitù. Nel pannello intitolato L’abolition, si ripercorre in dttaglio la storia dell’abolizione nei vari Paesi ricordando che mentre in Inighilterra il movimento abolizionista nasce in ambiente religioso (compresi i quacqueri) per passare alle petizioni parlamentari, in Francia furono le Lettres persans di Montesquieu e i filosofi come Diderot, Voltaire, Condorcet, Rousseau che iniziarono a divulgare le idee universali di uguaglianza e libertà. Ci furono anche però le rivolte degli schiavi come quella di Santo Domingo nel 1791.

In un’ora e mezza circa, nel silenzio di queste sale aperte nel cortile interno del forte abibito a museo, percorro un viaggio nella storia secolare dei continenti implicati nella tratta e in quella dei popoli e delle etnie che hanno formato e formano il Senegambia. Mi rendo conto di quanto sia poco questo tempo dedicato all’approfondimento ed alla conoscenza quando ci si interessa e si vuole comprendere la geostoria del Senegal.

Nonostante la meraviglia della passeggiata tra i vicoli dell’isola, una degustazione del ‘mafé poisson’ un piatto tipico di pesce in salsa di arachidi, un bagno nella spiaggia del porto e le infinite negoziazioni/chiacchierate con le donne del mercato artigianale che vengono a lavorare per la giornata a Gorée, non riesco a dimenticare quello che è stata quest’isola e cosa rappresenta. Lo spettro della morte e di questa lunghissima e dolorosa pagina della storia dell’umanità abita i miei pensieri più profondi e sento di aver bisogno di parole. Non trovo altro modo per esprimere questo sentimento che nella forma poetica: poche essenziali versi che riporto qui:

Gorée

Sono stata a Gorée/ E i muri parlavano/ bisbigli sommessi di paura/ urla laceranti di dolore.

Sono stata a Gorée/ E la terra sanguinava/ di ferite e di morti/ inflitte dalla bestia sull’uomo.

Sono stata a Gorée/ E il mare risuonava dalle feritoie/ risacca che annuncia/ il viaggio senza ritorno.

Sono stata a Gorée/ E ho visto e udito/ le catene, la fame, la malattia/ la fatica, la rivolta, la tortura.

Sono stata a Gorée/ E ho letto le parole e i segni/ memoria del potere e delle armi/ dell’avidità e del disprezzo dell’Altro.

Sono stata a Gorée/ E era come una storia già vissuta/ nelle tante Gorée dei tempi e dei luoghi/ dove pochi sottomettono molti.

P.

 

Les familles étaient separées: les hommes enfermés ici et les femmes de l’autre côté

In questa grotta venivano rinchiusi fino a trentacinque bambini tra i dieci e i dodici anni; la metà morivano di fame e di malattie durante il soggiorno…

Aquí se encerraba a los rebeldes y se les dejaba morir de hambre lentamente como ejemplo para otros esclavos.

Here is the space where there were women with babies; now it is a reflection space where you can take a quiet moment to reflect on the history of the ‘Maison des Esclaves’ and the trade in human beings…

La première étape de ma visite sur l’île de Gorée, et objectif principal, est la Maison des esclaves. Je suis émue par la visite de ce lieu qui évoque en moi, outre les nombreuses lectures, le nom de la maison d’édition de mon ami Riccardo Bassani, un projet éditorial que j’avais rejoint avec enthousiasme et pour lequel j’ai traduit Rosalie l’Infâme, un roman d’Evelyne Trouillot inspirée d’ histoires vraies sur l’esclavage en Haïti pour la collection « Diritti&rovesci ».

L’espace dans les cellules, toutes au rez-de-chaussée, est limité. Les visiteurs affluent avec leurs guides, officiels ou engagés sur place. Je ressens immédiatement une profonde consternation en captant le destin tragique de tant d’hommes, de femmes et d’enfants entre ces murs. Cependant, je dois me faire une place entre les différents groupes bruyants qui suivent les explications dans les différentes langues. L’oreille enregistre des bribes d’informations en français, anglais et espagnol lorsque je rentre dans la cellule longue et étroite où les enfants étaient enfermés à celle des femmes et, de l’autre côté, celle des hommes. Les guides expliquent, dans les différents idioms, que les deux trous séparés vers la cour intérieure servaient à la mort lente des esclaves récalcitrants dont les lamentations devaient servir d’avertissement aux autres. Je traverse l’espace dédié à la méditation dans ce lieu de mémoire à la recherche d’un moment de concentration possible entre les voix qui se chevauchent des guides et les commentaires bruyants d’un groupe de visiteurs. J’arrive à suivre le rituel indiqué dans cet espace-cellule: asperger l’eau de la source placée au centre en mémoire des millions d’esclaves qui ont affronté la traversée sans retour ou qui sont morts avant. L’ouverture sur la mer me donne un sentiment de liberté, d’accès à un horizon sans limite. Il y a un fort contraste avec cette perception et la notion de la mer comme détachement, douleur, mort pour les centaines d’esclaves chargés sur chaque navire qui pendant des siècles les ont transportés vers le Nouveau Monde comme monnaie d’échange pour la traite des esclaves.

Face à la prise de vue photographique d’un groupe de touristes qui saluent l’objectif depuis l’escalier menant à l’étage supérieur, j’ai une impression similaire à celle que j’avais eue lors de ma dernière visite à Dachau il y a déjà plusieurs années : je suis agacée par le bruit et la légèreté avec laquelle certains visiteurs traversent ces lieux. En revanche, les guides en profitent pour gagner quelques francs et gâter les touristes avec leurs histoires et improbables clichés photos souvenirs. En vérité il n’est pas certain que la Maison des esclaves ait été une véritable esclaverie comme nous le racontent les guides, mais, au final, peu importe de quel bâtiment il s’agit. Ce qui est certain, c’est que l’île de Goré, eclassée au patrimoine de l’Unesco depuis 1978, il est l’un des plus importants débarcadères de la traite négrière en Afrique de l’Ouest et est devenu le symbole de la mémoire d’une longue et terrible page de l’histoire de l’humanité. En plus des photos de personnalités venues témoigner de l’importance du lieu, dont Barak Obama, je suis frappé par une plaque commémorative datant de 2011 par diverses fondations, organismes et associations internationales dont ARCI, CGIL, Legambiente et autres dans lequel l’art. 1 de la déclaration universelle des droits de l’homme : Tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droit. Ils sont doués de raison et de conscience et doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité. De belles paroles, encore méconnues, et pas seulement en Afrique.

Une toute autre atmosphère règne au Musée historique du Sénégal, à l’intérieur de la Forte d’Estrées, où sont conservés des documents précieux et intéressants. Pas un seul visiteur ne s’aventure aujourd’hui dans ces onze salles qui, avec leur collection d’objets, d’artefacts, de photographies et de documents, retracent l’histoire du territoire dit Sénégambie. De la préhistoire à nos jours, les quatre siècles de traite des esclaves sont également documentés jusqu’à l’abolition de l’esclavage et le marché clandestin qui a suivi pendant de nombreuses décennies. Les différents panneaux explicatifs relatent l’histoire de l’exploration, de la domination et/ou de la colonisation par les Portugais, Hollandais, Anglais et Français mais aussi par les ‘ traites saharienne et orientale’”. On explique que depuis plus d’un millénaire ces derniers ont mis en contact le monde arabo-berbère avec les populations africaines pour le commerce de produits artisanaux ou d’autres ressources liées au marché des esclaves basé sur les razzias ou ‘dons’ des dirigeants africains et qui ont contribué à accroître les conflits internes. Ce trafic a eu des conséquences énormes sur le sort des continents afro-asiatiques. Sur le plan démographique, le nombre exact d’esclaves déportés vers les pays arabes en dix siècles ne sera jamais connu; certains documents parlent de raids transportant des centaines d’esclaves par caravane. On évoque par exemple le pèlerinage à La Mecque du roi malien Kankan Moussa en 1325, qui aurait mobilisé 12 000 esclaves (dont 1 000 filles) pour financer le voyage. Ou encore des milliers d’Africains déportés en Mésopotamie pour travailler les plantations de canne à sucre ou pour l’élevage ou pour des tâches militaires: il y avait 400 soldats africains à la cour de Bagdad. Sur le plan économique, les pays arabes ont énormément profité de la traite des esclaves en mer Rouge et dans l’océan Indien, créant une grande prospérité dans les cours royales arabes. Les Noirs servaient de revenus fiscaux versés par les Africains aux chefs de guerre arabes. Lorsque Okba ben Nafi, par exemple, a conquis la Nubie, la tribu de la région devait payer 360 esclaves en tribut chaque année. Sur le plan politique, la traite a également contribué à la fragmentation politique des États ou empires africains en raison des guerres sans fin dues au contrôle stratégique des territoires de la traite. Selon les estimations du chercheur Ralph Austen, 17 millions serait le nombre total d’esclaves déportés entre 650 et 1920 sans compter les pertes dues à la famine, les maladie, les suicides et lors des raids. Le panel documentant cette longue histoire conclut cependant: Avec la conversion à l’islam, les esclaves ont pu acquérir une certaine dignité dans la société islamique, c’est pourquoi leur condition, malgré la longue durée de cet esclavage, n’a pas connu la rigueur et la dureté de celle des sociétés capitalistes occidentales qui a rendu la très fondement de la richesse.

L’histoire de la ‘ traite transatlantique‘ est illustrée dans une autre salle: elle à commencé en 1441 lorsque les Portugais ont emmené des esclaves africains pour les vendre dans le port de Lagos, plus tard en Espagne et dans les îles de la côte africaine. Après la découverte de l’Amérique et dans la première décennie du XVIe siècle, le commerce devint transatlantique et fut le monopole des Portugais jusqu’au siècle suivant où les Hollandais, les Anglais et les Français se lancèrent également dans le commerce, provoquant une augmentation considérable du commerce d’esclaves. Au XVIIIe siècle, les Anglais, les Français et les Portugais étaient les principaux marchands d’esclaves. Après l’abolition de la traite négrière en Angleterre en 1807, la traite devint clandestine mais se poursuivit au moins jusqu’en 1865. L’apogée se situe au cours des XVIIIe et XIXe siècles avec la participation, dans une moindre mesure, de Danois, Suédois, Espagnols, marchands de Ostende, Courlande et Brandebourg. Curtin, en 1969, il estimait que neuf millions et demi d’esclaves débarquaient dans le Nouveau Monde. D’autres chercheurs considèrent que le calcul est considérablement sous-estimé car il ne tient pas compte du nombre de trafics illégaux, ni des décès pendant le trajet de l’intérieur vers la côte ou ceux avant l’embarquement ou pendant la traversée. Au-delà du calcul numérique exact, la dimension tragique de ce commerce humain est évidente.

Un autre panneau explique les différentes méthodes de capture des esclavagistes avec des exemples: la méthode dite “violente” qui pourrait être basée sur la tricherie, comme dans le cas du roi gambien et de sa cour invités à monter à bord d’un navire négrier espagnol en 1475 puis capturés et vendu en Andalousie. La méthode parfois pratiquée par les Portugais, les Anglais et les Français, consistait à débarquer pour piller les habitants et les asservir. Enfin, surtout aux XVIe et XVIIe siècles, des intermédiaires africains sont utilisés, comme par exemple lorsque l’Anglais C. O’Hara s’allie aux Maures pour attaquer le Walo à l’embouchure du fleuve Sénégal, en 1775.

Parmi les méthodes dites « pacifiques », il y a celle où l’on recourait à des intermédiaires locaux blancs ou métis qui se procuraient des esclaves par l’intermédiaire des autorités locales, comme dans la Petite Côte et à Saint-Louis. La deuxième méthode impliquait l’utilisation d’intermédiaires africains comme dans le cas du royaume d’Angola avec 15 000 esclaves traités par an vers 1760 ou, comme au Saloum dont le roi avait ouvert la traite avec les esclavagistes européens. La troisième méthode impliquait la concentration des esclaves dans des forts appelés les esclaveries sur les côtes de l’Afrique de l’Ouest et qui étaient achetés par le gouverneur qui traitait avec des intermédiaires africains.

Les esclaves étaient visités par le chirurgien pour évaluer leur prix avant d’être marqués. Aux XVe et XVIe siècles, la marchandise offerte par les Portugais à l’échange était généralement un seul article, comme des chevaux. Au cours des deux siècles suivants, les Européens ont offert un assortiment d’articles différents tels que des tissus, des armes, de l’eau-de-vie, des couteaux, des sabres, des barres de fer. En Sénégambie, au XVIIIe siècle, la valeur des esclaves était évaluée au prix d’une barre de fer. Sur ce territoire, ce fut le siècle au cours duquel le trafic fut le plus intense : entre 1711 et 1810, environ 180 000 esclaves furent transportés de la Sénégambie vers l’Amérique. Les ports d’embarquement étaient Gorée, Saint Louis et James Fort en suivant les fleuves Sénégal et Gambie, axes commercials du parcour des territoires intérieurs au littoral.

Dans le panneau dédié à La vie outre-mer  est expliqué ce qui se passait à l’arrivée. Du territoire sénégalais actuel les esclaves ont été emmenés au Portugal, en Espagne, au Brésil, aux États-Unis, mais la plupart ont été déportés vers les Antilles françaises. Parfois, ils étaient achetés directement à bord auprès du capitaine ou à terre auprès du commissaire de l’armateur Les acheteurs étaient informés par des avis de vente: un petit groupe d’esclaves était racheté par les Petits Blancs des villes, la plupart partaient pour les plantations de canne à sucre, de café et d’indigo. Un tiers décédait au cours de la première année en raison des conditions de travail et de l’inadaptation au nouvel environnement. Chaque plantation pouvait avoir des dizaines ou des centaines d’esclaves selon la taille; ils étaient divisés en domestiques, ouvriers et travailleurs de la terra : ces derniers étaient la catégorie qui souffrait des conditions de travail les plus difficiles. L’organisation de la plantation dépendait du colon/propriétaire qui la confiait souvent au régisseur aidé par des économes puis il y avait les chefs des esclaves. Si au départ ces derniers étaient blancs, plus tard ils étaient des noirs ou des métis qui maintenaient l’ordre avec le fouet à la main pour punir les délits les plus légers sur le champs tandis que pour les plus graves c’était le colon ou le régisseur qui donnait la punition. La journée de travail commençait avant l’aube par la prière et le petit-déjeuner, puis se poursuivait jusqu’au soir avec une heure de pause pour le repas. En 1685, il fut proclamé le Code Noir qu’il devait améliorer les conditions de vie des esclaves en fixant les rations alimentaires hebdomadaires, leur laissant un jour par semaine libre pour travailler son propre potager et pouvoir se ravitailler en toute autonomie. Les colons devaient alors fournir deux combinaisons en toile de 7,5 m de tissu mais il n’était pas prévu de fournir un logement. Le code visait à améliorer les conditions de traitement des esclaves, il incluait par exemple la règle de ne pas séparer les époux lors de la vente, ou fixiat le nombre et la disposition des esclaves dans les bateux pour optimiser l’espace et reduir les pertes (voire les dessins) mais il était souvent ignoré. La mortalité était si élevée que les esclaves des plantations étaient simplement remplacés par d’autres achats; le taux de natalité était très bas et les enfants mouraient jeunes. L’émancipation était une récompense spécialement donnée aux métis nés d’une relation avec un homme blanc pour qu’ils finissent par devenir une classe sociale. Le marronage, ou évasion des esclaves, était sévèrement puni par le règlement avec la coupe des oreilles et le marquage d’une fleur de lys à la première tentative. À la deuxième on sectionait le jarret et une seconde fleur était marquée; la peine de mort était prévue à la troisième tentative. Ceux qui fuyaient essayaient de rejoindre les fugitifs organisés tandis que les petites évasions étaient punies du fouet, le collier (chaîne autour du cou avec des pointes), le nabot (anneau lourd aux pieds), la chaine (aux chevilles), la barre (jambes bloquées par le joug) Au 17e siècle, alors que les esclaves étaient encore limités aux Antilles françaises, on recrutait des blancs, les ‘ engagès de jardin’ qui travaillaient avec des contrats de trois ans dans les plantations avec des esclaves noirs partageant les mêmes conditions de travail.

Enfin, dans un autre tableau d’affichage est conservé le “Décret de la Convention Nationale qui abolit l’esclavage des Négres dans les Colonies” de 1794, dont l’application fut suspendue par Napoléon, et les dates suivantes: -1814 où la France s’engage à abolir trafic; -1815 lorsque l’abolition de la traite est décrétée au Congrès de Vienne; -1831 Gorée devient l’escale d’une flotte de quatre navires chargés de traquer les bateaux négriers; -1848 lorsque la France abolit l’esclavage. Dans le panneau intitulé L’abolition, l’histoire de l’abolition dans les différents pays est retracée en détail, rappelant qu’en Angleterre le mouvement abolitionniste est né dans un milieu religieux (dont les Quakers) pour passer aux pétitions parlementaires, en France les idées contenues dans Lettres persans de Montesquieu et des philosophes tels que Diderot, Voltaire, Condorcet, Rousseau ont répandu les valeurs universelles d’égalité et de liberté. Mais il y eut aussi des révoltes d’esclaves comme celle de Saint-Domingue en 1791.

En une heure et demie environ, dans le silence de ces salles ouvertes sur la cour intérieure du fort-musée, je traverse l’histoire séculaire des continents concernés par la traite et celle des peuples et ethnies qui ont formé et continue de former la Sénégambie. Il faudrait bien plus de temps à consacrer à l’approfondissement et à la connaissance de la géo-histoire de la région si on veut bien comprendre le Sénégal.

Malgré l’émerveillement de la promenade dans les ruelles de l’île, une dégustation du ‘mafé poisson’ un plat typique de poisson à la sauce cacahuète, une baignade sur la plage du port et les interminables négociations/discussions avec les femmes qui viennent la journée pour vendre au marché, je n’arrive pas à oublier ce qu’a été cette île et ce qu’elle représente. Le spectre de la mort et de cette très longue et douloureuse page de l’histoire de l’humanité habite mes pensées les plus profondes et j’ai besoin de mots. Je ne trouve pas d’autre moyen d’exprimer ce sentiment que sous forme poétique: quelques vers essentiels que je cite ici :

Gorée

Je suis allée à Gorée / Et les murs parlaient / Des murmures sourds de peur / Des cris perçants de douleur.

Je suis allée à Gorée/ Et la terre saignait/ de blessures et de morts/ infligées par la bête à l’homme.

Je suis allée à Gorée / Et la mer résonnait des meurtrières / le ressac annonçant / le voyage sans retour.

Je suis allée à Gorée/ Et j’ai vu et entendu/ les chaînes, la faim, la maladie/ la fatigue, la révolte, la torture.

Je suis allée à Gorée/ Et j’ai lu les mots et les signes/ mémoire du pouvoir et des armes/ de la cupidité et du mépris de l’Autre.

Je suis allée à Gorée / Et c’était comme une histoire déjà vécue / dans les multiples Gorées d’époques et de lieux / où petit nombre soumet la multitude.

P.

 

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Un uncinetto per due