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Maria Marta Farfan, Cordoba (Argentina)- Roma
Tanti sogni, tanti progetti, tanta vita lasciata nel mio Paese, dilaniato dai colpi di stato, pertanto arrivata qui era necessario e ‘impostergabile’…
Il 28 febbraio u.s., invitata da Maria Marta Farfan, mi sono recata presso l’Auditorium di via Rieti, a Roma, dove si teneva un convegno sulle migrazioni femminili: un fenomeno significativo, silenzioso e quasi invisibile, che ha avuto un forte impatto sulla società italiana negli ultimi decenni.
Un gran numero di donne migranti infatti sono giunte in Italia da diverse parti del mondo, spinte da ragioni economiche, politiche, sociali e familiari. Tra di loro la mia amica, conosciuta nei primi anni ’80. La incontravo spesso nelle riunioni di famiglia. Sempre curata e sorridente, catalizzava l’attenzione di mio padre, affascinato dai suoi modi di fare nonché dalla sua bellezza. Quando si parlava di lei, diceva: -Maria Marta, la ‘bella fatta’ – per distinguerla da tutte le altre.
Nel corso degli anni non ci siamo mai perse di vista, lei seguiva la crescita dei miei figli, si informava sul mio lavoro, dei miei viaggi, io ammiravo i suoi progressi culturali e lavorativi. Si è costruita, nonostante gli impedimenti iniziali di chi arriva da un continente diverso, una solida situazione professionale e ha continuato a crescere nonostante le batoste della vita. Quando parla del suo vivere tra due mondi, afferma: Per tutte noi la vita è stata come divisa tra due Paesi. L’Italia è stata il mio punto di ripartenza..
Per il nostro blog condivide la sua storia, pubblicata anche nel volume “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità”.
Ieri: l’arrivo in Italia e il primo periodo
Sono nata nella Patagonia argentina, sull’oceano Atlantico. Da piccola quel mare grigio, di immense alte e basse maree mi faceva paura, ma mi arricchiva e mi rafforzava nella solitudine di quelle affascinanti terre desertiche. Avevo cinque anni quando i miei decisero di trasferirsi a Cordoba, città chiamata “La docta”, dove convivevano studenti e operai delle grandi fabbriche automobilistiche, un misto di studiosi e lavoratori che portò alle grandi lotte degli anni ’60.
Mi sono laureata con il titolo di avvocato presso la Facoltà di Diritto e Scienze sociali dell’Universidad Nacional de Cordoba, la più antica e prestigiosa dell’Argentina e una delle prime del continente americano, fondata dai Gesuiti nel 1613. Vivevamo in un’epoca in cui le rivolte militari erano frequenti e noi giovani avvocati ci occupavamo di sollecitare gli “habeas corpus” per i primi giovani desaparecidos.
Nell’anno 1974 l’Ambasciata italiana bandì un concorso per borse di studio riservate a laureati argentini, gestito dalla Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri. In quegli anni dolorosi e persecutori, di cui ricordo e sento ancora il suono di spari e sirene, vinsi la borsa di studio per frequentare una specializzazione all’Università di Roma “La Sapienza”! Un sogno accarezzato a lungo. Lasciavo un Paese dove pochi anni dopo, nel 1976, il colpo di Stato della Giunta militare avvierà un periodo di persecuzioni e sparizioni, che lascerà un vuoto di 30.000 desaparecidos.
In Italia sono arrivata da sola, scossa dagli eventi che si verificavano in Argentina, ma con la speranza di una nuova ripartenza e resistenza nel mio Paese.
In poco tempo, sia all’università sia con i miei connazionali, si formò una rete solidaristica che scambiava informazioni sugli eventi in Argentina, ma anche sulle possibilità di trovare nuove soluzioni al nostro soggiorno in Italia: dal cercare appartamenti in affitto nel mitico quartiere San Lorenzo alle piccole soluzioni quotidiane, come mangiare tutti i giorni alla mensa universitaria di via Cesare De Lollis, luogo di incontri con vecchi e nuovi amici e di condivisione di informazioni, in particolare sulla violazione dei diritti umani che si stava compiendo in Argentina e in Cile.
A livello universitario furono anni difficili, per via dei problemi burocratici e della mancanza di informazioni da parte degli stessi uffici universitari rispetto ai percorsi burocratici e accademici degli studenti stranieri, in particolare di noi laureati. Nessuna accoglienza particolare, nessun provvedimento sul diritto allo studio, tutto era lasciato a nostro carico, inclusa la gestione della richiesta del permesso di soggiorno per motivi di studio, necessario a completare l’iscrizione ai corsi post-universitari. Nonostante ciò, dopo vari anni ho ottenuto il mio diploma di perfezionamento all’Università la Sapienza con una tesi sui nuovi movimenti migratori in Italia.
Eravamo nell’anno 1978. Le somme erogate dalle borse di studio del Ministero non erano sufficienti (in molti casi non furono prorogate per noi argentini per ordine della
Giunta militare), per cui quasi tutti noi eravamo alla ricerca di qualche lavoretto da fare per pagare le nostre spese di vitto e alloggio.
Ero arrivata da un Paese dove l’emancipazione femminile era elevata, quindi qui creammo reti di sostegno tra noi studentesse straniere, scambiandoci informazioni e novità. Ho svolto diversi lavori occasionali in alcuni istituti e centri di ricerca e alla fine degli anni ’80 sono stata assunta presso la sede nazionale dell’Inas, con il compito di creare un team per lo studio dei temi migratori. Finalmente avevo un lavoro sicuro, ero valorizzata nelle mie competenze e avevo un regolare permesso di soggiorno per lavoro.
Nel 1986 l’Italia approvò la prima legge sui lavoratori stranieri, che ho studiato in profondità, dopo quasi dieci anni di vita vissuta sul filo tra legalità e illegalità. E proprio a partire da quella prima legge, emanata in un momento di emergenza, nacquero le prime associazioni, in particolare di donne straniere, valorose, studiose e rigorose. In quei luoghi di incontro spesso sconosciuti mi sono occupata di informare, formare le leader delle associazioni su come usufruire della regolarizzazione prevista dalla stessa legge, che coinvolgeva tante donne costrette a vivere nell’invisibilità, in particolare nel settore domestico.
Un lavoro sul campo, fatto di tante storie differenti, con donne di diverse appartenenze. Una ricchezza unica, un archivio di storie di vita che ho seguito con passione.
Sono state proprio le donne straniere che si sono rese pioniere di queste novità; nonostante la loro invisibilità, le informazioni correvano arrivando alle destinatarie, alle loro comunità e ad altri ambiti; donne pioniere, anche loro, per un futuro di ripartenza. Sono tante le donne che ricordo, tra le prime Jociara Lima de Oliveira, che è stata una delle donne illuminate che, insieme ad altre di diverse origini e di grande spessore, si sono distinte nelle loro comunità e a livello nazionale per la loro competenza, acquisita in quegli anni.
Eravamo destinatarie di una ricchezza di vita vissuta in altri Paesi, di esperienze
condivise in Italia, una ricchezza che non sempre le donne native hanno saputo cogliere. Una valorizzazione importante delle donne migranti è stata operata da altre lungimiranti donne delle istituzioni, come Silvia Costa, allora Presidente della Commissione nazionale per le Pari
Opportunità della Presidenza del Consiglio, con cui nel 2000 ho avuto l’onore di collaborare nelle pubblicazioni Itinerari: Guida ai diritti delle donne straniere in Italia e Orizzonti: Guida ai diritti delle donne italiane emigrate all’estero. Pubblicazioni con cui la Commissione ha voluto rendere quelle donne protagoniste di una storia migratoria italiana ormai quasi dimenticata.
Nel 1998, con l’entrata in vigore del Testo Unico sull’immigrazione (la cd. legge Turco-
Napolitano) è nato il Ministero per la Solidarietà Sociale, diretto da Livia Turco, ed è stata costituita la Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, dove ho rappresentato la mia organizzazione.
Mi sono dedicata approfonditamente allo studio della condizione giuridica degli stranieri e della cittadinanza italiana sotto il profilo interno e internazionale. Ho approfondito questi temi con sforzo e passione. Il mio rapporto con le associazioni e le istituzioni è stato principalmente di natura tecnico-giuridica, anche se sono stata spesso in front-office per capire le svariate situazioni migratorie.
Probabilmente, le pioniere della mia generazione in quegli anni sono state facilitate nell’inserimento sociale e politico, anche perché il tema migratorio era ancora poco conosciuto a livello sociale e normativo.
Ho avuto riconoscimenti a livello istituzionale e anche dal mio Istituto Inas, che mi ha conferito l’incarico di Responsabile Nazionale delle politiche sociali e migratorie, la prima donna straniera che entrava a fare parte dello staff dirigenziale dell’Istituto. Ciò mi ha portato a viaggiare in Italia e all’estero per la formazione, per realizzare articoli e pubblicazioni sul tema, per partecipare a incontri e dibattiti nazionali e internazionali.
Nel 2000 arriva il conferimento del titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica italiana motu proprio dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, per l’impegno in favore di una migliore legislazione sociale nell’ambito dell’immigrazione. Un onore per me e la mia famiglia, per il mio Paese (anche se “nemo propheta in patria”), per le mie Università di Cordoba e Roma.
Comunque, per tutte noi, la vita è stata come divisa: tra due Paesi, tra due mondi, tra partenze e ritorni sofferenti. Nei primi anni molte di noi non sono potute tornare nel loro Paese; le nostre vite familiari spezzate facevano sentire tutto il loro peso.
Ricordo le file al telefono della Posta di Piazza San Silvestro, l’unico a Roma dove si potevano fare chiamate internazionali, con i gettoni che non bastavano mai, che duravano pochi minuti, solo per dirci che stavamo bene oppure per comunicarci le ultime notizie: Sai che sei di nuovo zia? Una settimana fa è nata Mariana.
Oggi: riflessioni sul percorso personale e socio-politico
Le conquiste ottenute dalle prime donne “anticipatrici”, arrivate dal 1965 circa in poi, hanno aperto le strade alle nuove generazioni, con perseveranza e conoscenza dei temi e con l’obiettivo di portare alla luce il fenomeno dell’immigrazione non comunitaria e i suoi svariati problemi. Donne che hanno combattuto importanti battaglie per l’affermazione dei diritti/doveri degli immigrati in Italia e che le nuove generazioni dovrebbero ascoltare con attenzione. Tuttavia, è stata una generazione che ha usufruito, dopo tante battaglie, anche di una buona legislazione, seppure spesso disattesa nell’applicazione.
Queste donne passionarie, profonde conoscitrici dei principali temi migratori per esperienza vissuta, non sempre hanno avuto l’ascolto delle donne italiane e delle istituzioni.
Sembrava che ponessero problemi che non si volevano affrontare, troppo complessi e poco conosciuti, in particolare perché coinvolgevano diverse nazionalità, con bisogni diversi. Comunque, richieste all’inizio quasi inaccettabili, furono nel tempo accolte e integrate nel sistema normativo italiano: dal diritto al lavoro e allo studio, alla salute, alla protezione della famiglia e dei minori, alla maternità, alle provvidenze socio-previdenziali. Il cambiamento cominciava ad essere veramente positivo.
E a questo percorso hanno contribuito anche uomini del mondo della cultura e della ricerca, delle istituzioni, dell’associazionismo, pionieri anche loro nel mondo delle migrazioni, argomento non sempre professionalmente gratificante. Un confronto costruttivo e reciproco che ha contribuito alla mia crescita professionale di cui sono grata anche a loro.
Oggi siamo in uno stadio avanzato di radicamento e di inserimento delle donne di seconda e terza generazione nel tessuto sociale italiano, tali da costituire una componente di carattere strutturale. Ciò nonostante, il fenomeno migratorio è preso in considerazione solo in momenti di emergenza, e purtroppo anche per le nuove generazione si ripete la storia.
Attualmente la dimensione di genere ha molta più attenzione, la società è in parte cambiata in meglio per le donne migranti. In sostanza, una donna arrivata da più di trentacinque anni, cittadina italiana, competente nella propria materia, inserita a pieno
titolo nel Paese, non può essere considerata ancora “straniera”, “migrante” o qualsivoglia parola che crei un distacco, una distanza e, in fin dei conti, una discriminazione. Vogliamo poter interagire in condizioni di parità, e ancor più lo vogliono le nuove generazioni. Possiamo chiamarci ancora donne immigrate?
Le nuove generazioni di donne nate in Italia dispongono degli stessi strumenti di qualsiasi giovane italiana, utilizzano gli stessi modi di essere e lo stesso linguaggio. Siamo nell’epoca delle donne laureate, brave e interessate a tanti argomenti (e forse poco alle loro origini). Il rapporto con le pioniere non è sempre facile, anche perché le donne della nuova generazione sono più abituate a dare per scontato quanto è stato già acquisito e, forse, non sentono la necessità di lottare per il conseguimento dell’applicazione di un diritto. Una sorta di rapporto tra madri e figlie, dove l’esperienza delle madri non conta più di tanto. Spesso le figlie non sono state educate a conservare la memoria storica di quanto costruito dalle pioniere, ma spesso questo è un percorso quasi inevitabile. Se da una parte ciò è un bene, dall’altra resta il fatto che anche le nuove generazioni non sono pienamente inserite nella società italiana, continuano ad essere viste sempre come “migranti di seconda generazione”, seppure siano nate e abbiano compiuto gli studi in Italia. E non sono sicura che sia solo una questione di acquisizione della cittadinanza italiana.
La società e la politica italiane, includendo anche le donne native che occupano incarichi di rilievo, si avvalgono poco dell’esperienza e della competenza di chi vive o ha vissuto i processi migratori e che è portatore/trice di esperienze di vita diverse e di alte competenze. E invece, oggi forse più che mai, tenerne conto è essenziale per costruire inclusione e serena convivenza, per guardare il mondo che ci circonda. Noto che ancora continuiamo a discutere di questioni legate a situazioni emergenziali, al nostro quotidiano, mentre il mondo va spesso in un altro senso e non sappiamo cogliere le novità che questo ci offre.
Spesso tra noi donne manca la capacità di fare gruppo, di sostenere le donne che per esperienza e competenza possono ricoprire ruoli di eccellenza. E, invece, è necessario interagire, condividere e lavorare al processo di cambiamento con chi crede in una società inclusiva, equa, giusta, basata sui valori democratici che la Costituzione italiana ci indica.
Oggi, rivedendo il mio percorso, posso ritenermi soddisfatta, ho dato tutto ciò che era nelle mie possibilità e ho ricevuto molte gratificazioni; lunghe e dure ore di lavoro e studio hanno contribuito alla mia crescita personale e professionale; ho lasciato qualche pubblicazione sui temi di mia competenza. Il mio interesse era informare correttamente, dare la certezza dei diritti/doveri che molti ignoravano, aiutare chi mi stava davanti o accanto ad avere una vita regolare e decente in questo Paese. Un Paese al quale sono immensamente grata, anche per questa opportunità che oggi mi date voi, donne di eccellenza dell’Idos, insieme all’Istituto di Studi Politici San Pio V, considerandomi una delle “pioniere dell’immigrazione femminile in Italia”.
E la mia vita continua ancora, tra alte e basse maree… uguale e diversa, al servizio di chi ne ha bisogno.
Maria Marta Farfan Badaloni
Ringrazio la mia amica per la sua testimonianza, non potendo fare a meno di salutarla come faceva il mio babbo : Ciao , ‘bella fatta’! Come tutte le donne di valore, la sua bellezza lei se l’è creata con lo studio, la determinazione, l’impegno e coinvolge tutte le sfere del suo essere.
R.