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In questi giorni mi sono scontrata con problemi finora lontani dal mio mondo, inerenti esposti, querele, minacce di azioni legali per questioni infime che temo possano mutare la mia fiducia nel prossimo. La ferita è ancora aperta, pertanto non riesco ancora a parlarne ma mi ritrovo a scavare nei ricordi per ritrovare le stesse sensazioni di stupore di fronte all’inganno. Tra i miei scritti ritrovo il resoconto di un’esperienza vissuta a Santiago del Cile qualche anno fa, inserita nel libro “Cuori a zonzo tra Italia e Cile”. La trascrivo qui:
Diciott’anni
L’appuntamento con la giudice è in calle Agustinas. Entro nella “fiscalia” e mi fanno aspettare un quarto d’ora, poi appare la giudice, su tacchi alti e con tailleur da donna in carriera, accompagnata da due detective in abito scuro. Entro con loro in una macchina e parlo del tempo, poi offro alcune liquirizie portate dall’Italia. Loro le accettano ma, una volta assaggiate, non nascondono una smorfia di disgusto, sono abituati a sapori molto più dolci.
Arriviamo nel carcere di Santiago e mi soffermo su un gruppo di donne vestite poveramente piene di pacchi: alcune portano cibo, altre vestiti, tutte hanno un’aria triste e dimessa.
Mi accomodo nella saletta della portineria: dietro di me c’è la giudice e l’avvocato dell’uomo che sono stata chiamata a riconoscere. Mentre attendo, rileggo la dichiarazione giurata fatta due mesi prima:
Il giorno 28 settembre, intorno alle 10:00 di mattina, andai alla banca Santander Santiago, situata in via Bandiera 150, al terzo [piso] piano, dove c’era la mia “executiva” e parlai con lei per inviare dei soldi in Italia, per dirigermi poi alla cassa situata nello stesso piano per ritirare 2000 euro, consegnatimi in biglietti da 500. Non effettuai il cambio in banca perché era più favorevole nella attigua via Agustinas. Lì mi diressi, nella prima casa di cambio a destra e, mentre osservavo le quotazioni del giorno, un uomo, fermo sulla porta della casa del cambio, mi si avvicinò e disse:
“Se desidera cambiare dollari, nel Banco Estado c’è il cambio migliore”. Io risposi: “No, io cambio euro” e lui disse “Anche euro” e mi indicò che il Banco Estado era proprio all’angolo e aggiunse “l’accompagno, così mi danno una commissione sul cambio”.
Camminammo da Agustinas sino all’angolo di Huerfanos con Morandè e salimmo al quinto piano della banca. All’uscita dall’ascensore apparve una seconda persona, presentatami dall’uomo come il suo capo. A questo punto questa seconda persona, apparsa al quinto piano, mi domandò: “Quanto deve cambiare? Come sa, la cifra del cambio dipende anche dalla quantità”. Estrasse dalla tasca una calcolatrice e mi mostrò la cifra, poi disse: “Dovrò verificare che il denaro non sia falso”.
Io consegnai i soldi e i due entrarono nell’ufficio alle loro spalle.
Tutto sembrava in ordine perché il supposto capo era uscito dalla stessa porta dell’ufficio. Dopo un minuto di attesa, cercai di entrare nella porta dell’ufficio, ma era chiusa. Mi sedetti tranquilla su una panca posta all’uscita dell’ascensore. Apparve una guardia chiedendomi che stessi facendo lì. Alla mia risposta, che stavo aspettando il cambio, egli mi disse che non c’era cambio e entrò nell’ufficio con me chiedendo agli impiegati che erano all’interno se avessero visto qualcuno, ma essi risposero di no e aggiunsero altre parole che non compresi bene.
Mi sembrò strano che il presunto capo fosse uscito da un ufficio dove c’era molta gente al lavoro e rientrato senza che nessuno avesse notato niente e ancora più strano che la porta risultasse chiusa dall’interno quando avevo cercato di entrare, per poi essere aperta senza problemi dalla guardia.
Scesi con la guardia a fare un giro nella banca per vedere se c’era ancora qualcuno dei due truffatori, ma non c’era nessuno. Andammo quindi dal capo delle guardie che ci assicurò che avrebbe controllato le registrazioni delle telecamere di sicurezza. Dal set fotografico che c’è in questo atto posso segnalare quando segue: “Riconosco l’individuo della foto n. quattro come colui che si presentò come il capo, la seconda persona che incontrai al quinto piano, però dovrei vederlo di persona in quanto è basso di statura. L’individuo che riconosco è quello della foto n. sette, è l’uomo che mi abbordò in calle Agustinas invitandomi al Banco Estado. Non riconosco gli altri soggetti che mi sono stati mostrati. Senza null’altro da aggiungere, dopo aver letto e approvato in tutte le parti, sottoscrivo il presente atto.
«Signora, è pronta al riconoscimento?».
Davanti alla portineria, vengono condotti cinque soggetti.
Hanno le manette e tutti sono rapati a zero. In mezzo a loro riconosco subito il mio truffatore, con il cranio rasato è poco più di un bimbo. Mentre studio con attenzione la sua fisionomia, senza nutrire dubbi sul fatto che sia proprio lui quello che mi aveva condotto verso la banca, la giudice alle mie spalle m’incalza a non esitare elencando tutti i suoi precedenti, tra cui spiccano numerosi furti ai danni di turisti e scippi con destrezza all’uscita delle case di cambio.
L’avvocato riassume la vita del suo assistito, appena maggiorenne. Mentre lui parla, immagino la povera casa dove hanno fatto irruzione per catturarlo, il pianto dei fratelli svegliati all’alba, la madre che cercava di radunare in una sacca alcuni vestiti, dentifricio, sapone e spazzolino da denti. Tante madri come lei sono adesso nel parlatorio del carcere, le ho viste sfilare davanti ai miei occhi, rassegnate a perpetuare una vita di visite negli istituti di pena, dapprima ai mariti, poi ai figli, una triste eredità di espedienti per vivere o solo per sopravvivere passata da una generazione all’altra. A volte qualcuno spezza questa catena ma è difficile in una società dove chi nasce povero, povero rimane.
«Spero che questa volta, col suo aiuto, si riesca a dargli diciott’anni» mi incalza la giudice.
Diciott’anni, come la sua età, penso, e nonostante riviva la rabbia, lo sconcerto di quel giorno di settembre, mi giro e affermo a voce alta:
«Non è tra questi».
I detective non ritengono che io abbia guadagnato con il mio silenzio il diritto a essere riaccompagnata nel centro della città, pertanto mi avvio verso l’uscita del carcere diretta alla scuola dove insegno. Cammino per un lungo tratto, curva sotto il peso della mia omertà.
Arrivata in classe, osservo i visi dei ragazzi dell’ultimo anno, hanno anche loro diciott’anni, sono curati e coccolati nelle loro case, piano piano la mia schiena si raddrizza, e penso che a volte omertà fa rima con carità.

R.