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Visitando Berlino il 24 giugno del 2015, una viaggiatrice si sorprende di trovare, sulla Alexanderplatz, una macchina distributrice di T.shirt a soli due euro! Attirata dall’offerta come diversi passanti -ogni giorno passano per la piazza berlinese circa 300.000 persone- inserisce la moneta scegliendo tra S, M, L, EX. Digitata l’opzione preferita aspetta che esca la maglietta dall’apposito spazio ma, al suo posto, vede apparire sullo schermo del distributore il volto di Manisha, giovane operaia bengalese, mentre lavora in una fabbrica tessile.
In qualche minuto il video mostra e spiega le condizioni di lavoro di migliaia di operaie che nutrono l’industria tessile della “fast fashion”. Industria che ha permesso di vestirci a buon mercato con indumenti dalla durata limitata ma molto economici. Il video fa comprendere ai potenziali acquirenti, tra cui la nostra amica viaggiatrice, che in realtà questi vestiti hanno un prezzo. Se non siamo noi consumatori che lo paghiamo, altri lo hanno sostenuto in qualche forma, a monte. Manisha, per esempio, viene pagata solo tredici centesimi al giorno lavorando sedici ora di seguito. I contadini sono retribuiti così poco che, senza volerlo, è come se avessero offerto una parte del costo del cotone. Anche l’ambiente ha pagato il suo prezzo: più le materie prime sono a buon mercato, più sono prodotte inquinando.
Al termine del video appare la domanda: “Ora, dopo aver conosciuto la sorte di Manisha, desideri ancora comprare questa T-shirt?” Il 90% dei passanti rifiuta accettando di sostenere l’associazione Fashion Revolution, realizzatrice di questo evento per la campagna “Who made your clothes?” (trad.: Chi ha fatto i tuoi abiti?), e donano i due euro.
Lo scopo di questa campagna, oltre a raccogliere fondi, era soprattutto quello di sensibilizzare e rendere cosciente il consumatore prima della scelta di un acquisto. È un’esperienza sociale perché i passanti vengono filmati; le loro reazioni e il feedback sono studiati e elaborate statistiche che mostrano quanto e come si possa incidere sul mercato affinché le parole “eco e solidale” riferite al commercio si realizzino concretamente.
Perché l’esperienza/evento di Fashion Revolution ha avuto luogo proprio il 24 aprile? Pochi sanno o ricordano che in quella data, due anni prima, Il Raza Plaza, una fatiscente fabbrica tessile in Bangladesh, crollò causando la morte di 1135 persone e il ferimento di 2500. La maggior parte di loro erano giovani donne come Manisha. Fu il quarto più grave disatro industriale nella storia.
Il 24 aprile, l’associazione organizza eventi ogni anno per la Fashion Revolution week, oltre ad impegnare produttori e consumatori in un lavoro quotidiano per cercare soluzioni al tema: “No one should die for fashion” (trad. Nessuno dovrebbe morire per la moda”). Anche se recentemente ci sono stati miglioramenti nelle condizioni di lavoro, restano abusi dei diritti umani e degradazione ambientale nella produzione del settore, secondo l’associazione che continua il lavoro di sensibilizzazione perché: “While vast numbers of the public have become more aware of these problems, many people remain in the dark, unaware that their clothes may be contributing to the climate crisis and human exploitation” (trad.: Se un pubblico sempre più vasto sta prendendo coscienza di questi problemi, molte persone ne restano all’oscuro continuando a contribuire alla crisi climatica e allo sfruttamento umano).
Per chi volesse guardare la documentazione dell’evento di Berlino e saperne di più sul lavoro dell’associazione, ecco due link:
P.