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Viaggiare è difficile in era di Covid, e lo è ancora di più se si deve affrontare un volo intercontinentale. Ma l’urgenza era tanta per me, dopo dodici anni non riuscivo ad aspettare ancora. L’impellenza di tornare sulle rive del Mapocho mi ha spinto a sfidare le leggi severe dei green pass da convalidare per essere ammessa in Cile. Fino al giorno previsto per la partenza ho lottato con i vecchi certificati vaccinali e i lotti di vaccino introvabili che il governo cileno mi richiedeva per poter salire su un volo della Latam. Nulla sembrava andare bene, caricavo copie di documenti che venivano rigettati senza che io potessi capire il perchè. Perse tutte le speranze, dopo un ennesimo tentativo, ho svuotato la valigia, ormai mi ero arresa. Un bip del cellulare mi ha avvertito di una mail in arrivo: il lasciapassare era accordato ma mancavano solo due ore alla partenza. Ho infilato alla rinfusa vestiti e oggetti di viaggio nel bagaglio. Le mie mani tremavano, non riuscivo nemmeno a chiudere la lampo della valigia per la trepidazione. Un ragazzo, mio splendido vicino, mi ha accompagnato a Fiumicino e dopo altri difficili documenti da riempire al banco dell’Iberia (non riuscivo a digitare sul tasti del telefono per compilare gli ultimi permessi) sono arrivata trafelata all’imbarco per Madrid, primo scalo.
Tornare… sì, l’emozione era tanta quando a Barajas ho varcato la porta dell’aereo per Santiago del Cile. Una notte di volo, ero nervosa ma lieta e commossa mentre mi rigiravo sulla poltrona, e poi, le Ande sotto di me, l’atterraggio in un aeroporto affollato di gente in fila per il tampone, un giorno di quarantena prima di poter uscire.
Correre finalmente verso il Pacifico, respirare la forte aria di un mare che qui chiamano “bravo”: impetuoso e violento con alte onde. Sentirmi di nuovo a casa. Sono tornata.



R.